BEATA PANACEA DE’ MUZZI
La fonte più antica che
possediamo riguardo la vita di Panacea è di carattere iconografico ed è
costituita da tre affreschi che si trovano nell'antico oratorio di San
Pantaleone situato in località Oro di Boccioleto, comune della Valsermenza, una
delle numerose valli laterali della Valsesia. I dipinti furono eseguiti nel
1476 da Luca De Campis e ci presentano dei momenti significativi della vita
della ragazza: la carità verso i poveri, il suo martirio e il trasporto del suo
corpo (funerale o inventio delle reliquie?) alla presenza del vescovo del clero
e dei fedeli. Questi episodi sono una sintesi della storia molto triste, che ha
tutto il sapore di una di quelle favole che raccontavano le nostre nonne, ma
che, al contrario di queste, è ben documentata da molte fonti storiche, che
rivelano la profonda fede di cui è intessuta: una fede vissuta e testimoniata
fino al sacrificio estremo della vita.
Panacea nacque a
Quarona, oggi dinamica cittadina situata tra Borgosesia e Varallo, nel 1368, da
Lorenzo Muzio, originario di Cadarafagno, e da Maria Gambino oriunda di Ghemme.
La madre morì prematuramente ed il padre, per non far mancare un così
importante riferimento alla bambina, si risposò con una certa Margherita di
Locarno Sesia. Nella ricomposta famiglia non erano però molto felici e tra la
matrigna, la sorellastra e Panacea iniziarono una serie di incomprensioni e
divergenze che portarono le prime due a manifestare aperta ostilità nei
riguardi della fanciulla, fatta oggetto di angherie ampiamente descritte dai
biografi della beata dei secoli scorsi, tra cui va ricordato in particolare
Silvio Pellico.
Questa situazione
degenerò, secondo la tradizione, in una sera di primavera del 1383, quando la
matrigna, non vedendo rincasare la ragazza andò a cercarla personalmente. Si
recò sul monte Tucri che sovrasta l'abitato e, poco oltre l'antichissima chiesa
di San Giovanni, trovò Panacea in preghiera. Adirata Margherita la rimproverò e
in un eccessivo scatto d'ira, forse senza volerlo, la percosse violentemente
uccidendola; accortasi dell'accaduto la donna si gettò da un burrone in preda
alla disperazione.
La notizia si sparse
subito nel paese e nel contado circostante e richiamò molta gente presso il
corpo di Panacea che fu trasportato a Ghemme, per essere sepolto accanto a
quello della madre, deposto nel cimitero adiacente la parrocchiale di Santa
Maria. Il culto per la pastorella valsesiana, che ricevette conferma papale nel
1867, si sviluppò presto, già all'inizio del 1400 vennero edificati due oratori
in sua memoria: uno sul luogo del martirio, Beata al Monte, e uno in paese dove
venne accolta la salma, Beata al Piano.
Vero centro però della
devozione alla patrona della Valsesia è stata sempre la chiesa di Ghemme,
all'interno della quale, in un grande scurolo opera di Alessandro Antonelli,
sono ancora oggi conservate le sue reliquie, meta ogni anno, il primo venerdì
di maggio, di numerosi fedeli provenienti dalla Valsesia e dal Novarese, tra
cui i più numerosi i quaronesi che compiono a piedi il cammino. Lungo i secoli
l'affetto popolare che circonda Panacea non venne mai meno, manifestandosi in
più occasioni: come i trasporti o le peregrinazioni delle sue spoglie, e dando
origine ad una ricca produzione iconografica, sia in valle, dove ogni località
ne possiede traccia, sia oltre i confini della diocesi. Generalmente Panacea è
presentata nel momento del martirio, con gli attributi tradizionali dei fusi,
del gregge di pecore o del fascio di legna ardente,accesosi spontaneamente
secondo la tradizione per avvertire i compaesani della sua morte, ma forse, più
probabilmente, ricordo di falò celebrativi in sua memoria.
La figura di questa
ragazza valsesiana, la cui ricorrenza, attualmente, è fissata al 5 maggio per
la diocesi di Novara, il primo venerdì dello stesso mese per il vicariato della
Valsesia, è stata proposta dai vescovi come modello di santità laicale, una
fede vissuta nel quotidiano, capace di superare avversità e incomprensioni,
alimentata dalla preghiera e testimoniata nella carità, fino alla morte, al
punto che il popolo ha sempre visto in lei la propria mediatrice ed in lei si è
sempre identificato: una santa dalla fisionomia tipicamente valsesiana.
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