FRATEL GIOSUE’ DEI CAS
A
papa Francesco, cui piacciono i pastori con addosso l’odore delle proprie
pecore, andrebbe sicuramente a genio un missionario così, perché non soltanto
l’odore, ma anche la malattia delle pecore ha preso su di sé.
Nasce
nel 1880 nella contrada Burat della frazione Piatta del piccolo comune di
Valdisotto, in quel di Sondrio, dove il giovane Giosuè in estate è contadino e
in inverno spalatore di neve sullo Stelvio. Fino ai 25 anni, quando dalla
predica di un comboniano scopre che non necessariamente tutti i missionari sono
preti e che quindi si può andare in missione anche come semplici “Fratelli”, a
seminar Vangelo con il lavoro delle proprie mani. Gli sembra una soluzione che
faccia al caso suo, dato che al matrimonio non si sente portato e agli studi
nemmeno, mentre è indiscutibile il desiderio che si sente dentro di mettere la
vita a servizio di Dio. Non la pensano così i formatori dei Comboniani di
Verona, che finiscono per giudicarlo non idoneo al noviziato per i suoi
evidenti limiti culturali e relazionali, evidentemente non badando ad altri
aspetti che avrebbero deposto a suo favore, come ad esempio la preghiera e la
carità. Proprio a queste si aggrappa invece il maestro dei novizi, che, per
salvare in corner una vocazione per lui sicura ma ormai spacciata, riesce ad
ottenere che Giosuè venga accolto dai Comboniani almeno come “aggregato
all’Istituto”. Una soluzione di ripiego, dunque, e non proprio lusinghiera, per
accettare la quale è indispensabile una buona dose di umiltà, insieme ad una
gran voglia di andare in missione.
Nel
1907 Giosuè parte così da Verona con destinazione il Sudan, senza neanche
salutare i parenti. Ci vogliono 15 anni di lavoro umile, faticoso ed ingrato, a
costruire terrapieni ed a scavare pozzi, prima che i confratelli si accorgano
che hanno a che fare con un santo. Sono testimoni della delicatezza con cui
accoglie i poveri, della tenerezza con cui lava e fascia anche le ferite più
ripugnanti; lo vedono mangiare nello stesso piatto dei malati per dimostrar
loro che non ha paura di essere contagiato; sono ammirati di come la gente,
all’inizio diffidente e schernitrice, si è lasciata conquistare dalla sua bontà
fino ad offrirsi a lavorare insieme a lui per la missione, e allora prendono
carta e penna per dire ai superiori che l’umile e disponibile Giosuè merita
davvero di diventare comboniano al par di loro. Viene così richiamato in Italia
per fare il noviziato ed emette i Voti durante la notte di Natale del 1921, ma
appena pochi giorni dopo, di nuovo senza salutare i parenti, ritorna in Africa,
perché sente che là ormai è la sua vera famiglia.
Lo mandano a Detwok, tra la popolazione Denka,
dove ha occasione di incontrare la duchessa Letizia d’Aosta, la cui attenzione
è attirata dalle strane ferite presenti sulle sue mani e deduce che potrebbe
trattarsi di lebbra. La supposizione è confermata dalla diagnosi di uno
specialista: chiaramente l’ha contratta servendo e curando i lebbrosi, reso
adesso come loro e costretto all’isolamento, prima nell’isola di Gesira, poi
nel lebbrosario di Kormalàn, nei pressi di Wau (Sudan meridionale), una sorta
di inferno, dove gli stessi missionari entrano malvolentieri. Dopo un normale
sgomento iniziale, fratel Giosuè comincia ad elaborare che la sua lebbra può diventare
una benedizione là dov’è ancora considerata una maledizione e dove la
sensazione di essere abbandonati anche da Dio acuisce il dolore fisico e la
sofferenza dell’isolamento.
“Cos’è
poi questa lebbra? Se considero bene, non è una croce, ma una fortuna perché
posso essere missionario più di prima e senza più il pericolo di tornare in
patria”, scrive a casa. Inizia ad ingentilire l’ambiente, a farlo pulire, a
rallegrare gli ospiti insegnando loro un mestiere; per loro costruisce una
cappella e gli studenti cattolici di Wau vanno al lebbrosario per vedere e per
parlare con il lebbroso Giosuè che ha ridato speranza agli altri lebbrosi. Fino
ai primi giorni di dicembre 1932, quando i missionari gli dicono che il giovane
Fratello appena arrivato dall’Italia si è ammalato seriamente e sta per morire.
“Domattina starà bene”, dice Giosuè, ma intanto quella sera stessa si mette a
letto lui, colpito da un attacco di malaria perniciosa. Quando non c’è più
speranza lo portano alla missione, dove spira alle 10 del 4 dicembre 1932,
nello stesso istante in cui il confratello balza dal letto completamente
guarito. Una vita, quella di fratel
Giosuè dei Cas, fatta misericordia fino alla fine, perché ha offerto la sua
“inutile” vita in cambio di quell’altra, giovane e promettente.
Commenti
Posta un commento