SERVO DI DIO GIUSEPPE ROSSI



Senza il martirio, probabilmente, sarebbe uno dei tanti santi ”curati di campagna”, non destinati a passare alla storia, perché questa è fatta solo dai grandi. E don Giuseppe Rossi, in base a criteri puramente umani, non avrebbe diritto a rientrare tra questi, perché di grande ha solamente il cuore. Nasce a Varallo Pombia il 3 dicembre 1912, figlio di genitori che faticano a mettere insieme il pranzo con la cena. Con il papà che fa la spola tra Francia e Germania per cercar lavoro, lui nel 1925 entra nel seminario di Arona e il 29 giugno 1937 viene ordinato prete. Poco più di un anno dopo è destinato a Castiglione Ossola, una parrocchia di montagna dai sentieri impervi e con poche centinaia di abitanti, segnata da un progressivo spopolamento, perché i giovani  vanno altrove a cercar lavoro. I problemi più grossi, però, non gli derivano dalla povertà del territorio o dal progressivo invecchiamento della popolazione, piuttosto dalla guerra, che avvelena gli animi e raziona i viveri, lasciando donne, vecchi e bambini a patire la fame. Don Giuseppe intrattiene una fittissima corrispondenza con i suoi ragazzi al fronte, per chi è rimasto fonda l’Azione Cattolica e la San Vincenzo, si spoglia del poco che ha per aiutare le missioni, ma prima di tutto non dimentica i suoi poveri. Si riduce anche a comprare il riso a borsa nera per dar loro da mangiare: lungo il giorno in canonica si cuociono vari pentoloni di minestra che poi a sera, con il favore del buio, don Giuseppe in persona distribuisce di casa in casa ai più bisognosi. Tutti in paese sanno che lui non è schierato, né a destra né a sinistra, per aver le mani libere di aiutare chiunque chieda il suo aiuto. Non si lascia coinvolgere neanche la mattina del 26 febbraio 1945, quando i partigiani tendono un’imboscata ai Muti durante la quale due di questi vengono uccisi e molti altri feriti. Destino vuole che, proprio in quel mentre, il campanile della parrocchia scocchi lentamente le nove e che quei rintocchi vengano interpretati come il segnale convenuto per i partigiani. Pur sapendo che la sua vita è in pericolo, don Giuseppe si rifiuta di fuggire per i monti insieme agli uomini e ai giovani, preferendo fare da baluardo ai più deboli, rintanati in casa in attesa della rappresaglia, che non tarda ad arrivare: i fascisti incendiano alcune case, razziando il poco che trovano e rastrellando 45 persone, per lo più donne ed anziani, sottoposti ad interrogatori e vessazioni. Come il pastore buono che all’arrivo del lupo non fugge, don Giuseppe passa dall’uno all’altro a confortare, incoraggiare, assolvere e preparare ad una morte che in quei momenti appare inevitabile, anche se più d’uno sarà poi disposto a giurare di aver sentito il loro parroco dire a mezza voce, come se parlasse a se stesso: “prima di voi ci sono io, sarò io ad essere ammazzato”.   Verso sera, inaspettatamente, tutti vengono liberati e ritornano a casa, compreso don Giuseppe. I parrocchiani allora si fanno in quattro per consigliargli di abbandonare il paese e fuggire sui monti, ma lui rifiuta, sempre appellandosi a quanto sente di essere: il pastore buono che per il gregge deve dare anche la vita, perché sa che la sua fuga esporrebbe il paese al rischio di una nuova rappresaglia. Prima di notte i fascisti tornano in canonica, lo prelevano così com’è, con le pantofole ai piedi, e lo trascinano fuori paese. Da quel momento di lui non si hanno più notizie, fino al 4 marzo, quando i parrocchiani vanno a cercare il loro prete giù nel vallone, seguendo le indicazioni di una ragazza che ha ricevuto una confidenza da uno degli assassini, perseguitato dal rimorso. Lo trovano sotto pochi centimetri di terra, in una buca scavata con le unghie, ricoperto di lividi, con il cranio sfondato e il colpo di grazia in pieno volto. Lo seppelliscono nel suo paese natale, ma nel 1991 i parrocchiani rivogliono i suoi resti, accolti come quelli di un martire nella chiesa parrocchiale. Nel 2002, infine, la diocesi di Novara dà l’avvio al suo processo di beatificazione.

                            

 

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