SAN GIUSEPPE CATASSO
Quando
varcai per la prima volta la soglia del carcere, mi sentivo disorientato.
Vagavo nei corridoi senza sole, incerto sul da farsi; attraverso gli spioncini
delle pesanti porte mi affacciavo alle celle scrutando chi vi abitava: visi
spettrali, con i segni profondi della sofferenza, della fame, della paura. Poi,
dopo pochi giorni dal mio primo ingresso nel carcere, mi si disse che avrei
dovuto, l’indomani, assistere un condannato a morte. Il “mio” primo condannato
a morte!». Inizia così il racconto della prima volta che padre Ruggero Cipolla
(1911-2006), francescano e per cinquant’anni cappellano delle carceri
giudiziarie di Torino, scriveva nel 1960. La toccante testimonianza prosegue:
«Sentii nell’anima uno schianto, crebbe la mia incertezza. E mi aggrappai
disperatamente al confortatore per eccellenza dei condannati a morte: san
Giuseppe Cafasso, il prete della forca».
Oggi
Benedetto XVI del santo dei carcerati afferma: «Conosceva la teologia morale,
ma conosceva altrettanto le situazioni e il cuore della gente, del cui bene si
faceva carico, come il buon pastore. Quanti avevano la grazia di stargli vicino
ne erano trasformati in altrettanti buoni pastori e in validi confessori.
Indicava con chiarezza a tutti i sacerdoti la santità da raggiungere proprio
nel ministero pastorale». Sono parole che il Santo Padre ha pronunciato durante
la Catechesi dell' Udienza generale del 30 giugno 2010, a pochi giorni dalla
chiusura dell’Anno sacerdotale (11 giugno 2010), un tempo di grazia, che ha
portato e porterà frutti preziosi alla Chiesa, e che ha visto, per volontà di
Benedetto XVI, il Santo Curato d’Ars proposto come principale modello dei
ministri di Dio.
Proprio
quest’anno ricorrono duecento anni dalla nascita di questo Homo Dei e da poco
si è chiuso il 150° del suo dies natalis. Della sua morte egli, con profonda
umiltà, affermava: «Disceso che sarò nel sepolcro, desidero e prego il Signore
a fare perire sulla terra, la mia memoria, sicché mai più alcuno abbia a
pensare di me, fuori di quelle preghiere che attendo dalla carità dei fedeli. E
accetto in penitenza dei miei peccati tutto quello che dopo la mia morte si
dirà nel mondo contro di me». Era nel mondo, ma non fu del mondo. La sua
memoria, nonostante la sua aspirazione fosse quella di sparire dai ricordi,
rimane viva non per volontà di qualcuno, visto che non ha fondato alcuna
congregazione o istituto religioso, ma per la forza di ciò che è stato ed ha
rappresentato.
Nacque
a Castelnuovo d’Asti, oggi Castelnuovo Don Bosco, il 15 gennaio 1811 e morì a
Torino il 23 giugno 1860. Era il terzo di tre figli: la sorella Marianna
divenne la madre del beato Giuseppe Allamano (1851-1926), rettore del Convitto
e del Santuario della Consolata, nonché fondatore dell’Istituto Missioni della
Consolata.
Giovanni
Bosco (1815–1888), di soli quattro anni più giovane e suo compaesano, una volta
invitò il giovane don Cafasso a vedere i giochi della fiera di Castelnuovo ed
ebbe di tutta risposta: «Colui che abbraccia lo stato ecclesiastico si vende al
Signore: e di quanto c’è nel mondo, nulla deve più stargli a cuore». Fu sempre
gracile e minuto, «era quasi tutto nella voce», diceva don Bosco, eppure fu un
gigante nello spirito.
Riceve
l’ordinazione sacerdotale il 21 settembre 1833 nella chiesa dell’Arcivescovado
di Torino e l’anno dopo avviene l’incontro con don Luigi Guala (1775–1848),
dalla spiritualità ignaziana, insigne moralista e teologo, il quale ricevette
una salda preparazione all’apostolato dal venerabile Pio Brunone Lanteri
(1759-1830) di cui fu collaboratore e con il quale fondò il Convitto
Ecclesiastio di San Franceso d’Assisi, volto alla formazione del clero
torinese, dove don Cafasso entrò nel 1834.
Nella
terra subalpina prendono vita i moti risorgimentali e la Chiesa, duramente
perseguitata sotto Napoleone, ora si appresta, dopo il Regno del cattolico Re
Carlo Alberto (1798–1849), salito al trono nel 1831 (molto attento alla riforma
del clero, avendo stabilito un fecondo accordo con Papa Gregorio XVI) a
ricevere feroci attacchi dal governo liberale e massonico.
Dal
punto di vista spirituale nel Regno di Sardegna è influente l’ École française,
quella del teologo e Cardinale Pierre de Bérulle (1575-1629), uno dei
protagonisti dell’età della controriforma che, ispirandosi a san Filippo Neri
(1515-1595), fondò a Parigi l'Oratorio di Gesù e Maria Immacolata. Bérulle,
come Jean-Jacques Olier (1608–1657), Charles de Condren (1588-1641), Giovanni
Eudes (1601– 1680), Francesco di Sales (1567- 1622) e Vincenzo de’ Paoli
(1581–1660), ha vissuto e lottato per restituire splendore e grandezza allo
stato sacerdotale, il «primo ordine del regno», che prima del Concilio di
Trento era in larghi strati caduto nella rilassatezza. La formazione
sacerdotale avvenne così, per don Cafasso, con gli insegnamenti dei maestri del
Grand Siècle, e alle figure ricordate si affiancarono sant’Alfonso Maria de’
Liguori, maestro di morale, e san Carlo Borromeo, maestro di zelo. Cafasso fu
anche erede di Nicola Diessbach (1732 – 1798), nativo di Berna, convertito dal
calvinismo e fondatore dell’«Amicizia cristiana», opera che ebbe una felice
continuazione proprio nel venerabile Pio Brunone Lanteri.
Padre
spirituale, direttore di anime, consigliere di vita ascetica ed ecclesiastica,
formatore di sacerdoti, a loro volta formatori di altri preti, religiosi e
laici, in una sorprendente ed efficace catena, Cafasso fu rettore per 24 anni
del Convitto ecclesiastico, che nel 1870 mutò sede e da via San Francesco si
trasferì al santuario della Consolata, dove oggi riposano le sue spoglie.
Le
sue lezioni erano attraenti perché costruite sulle verità di Fede e sul
sapiente bagaglio di conoscenze, ma anche palpitanti di documentazione raccolta
dal vivo nel confessionale, al capezzale dei morenti, nelle missioni predicate
al clero e al popolo, e nelle carceri, luogo a lui molto caro. Uomo di sintesi
e non di pedanti trattazioni, combatté il rigorismo di matrice giansenista.
Voleva fare di ogni sacerdote un uomo di Dio splendente di castità, di scienza,
di pietà, di prudenza, di carità; assiduo alla preghiera, alle funzioni
religiose, al confessionale, devoto di Maria Santissima e attingente forza dal
Santo Sacrificio. Primo dovere del prete, diceva, era quello di essere santo
per santificare e che «grande vergogna che un sacerdote si lasci anche solo
eguagliare in virtù da un laico! Che onta per noi!».
Fu
confessore della serva di Dio Giulia Falletti di Barolo (1786-1864) e fra i
sacerdoti da lui formati ricordiamo: san Giovanni Bosco, fondatore dei
Salesiani e delle Figlie di Maria Ausiliatrice; Giovanni Cocchi (1813–1895),
fondatore di uno dei primi oratori di Torino e del Collegio degli Artigianelli;
beato Francesco Faà di Bruno (1825-1888), fondatore dell'Opera di Santa Zita e
della congregazione delle Suore Minime di Nostra Signora del Suffragio; Gaspare
Saccarelli (1817- 1864), fondatore dell’Istituto della Sacra Famiglia; Pietro
Merla (1815 -1855), fondatore del Ritiro di San Pietro in Vincoli; Francesco
Bono (1834–1914), fondatore dell’Istituto del Santo Natale; beato Clemente
Marchisio (1833-1903), fondatore dell’Istituto delle Figlie di San Giuseppe;
Lorenzo Prinotti (1834-1899), fondatore dell’Istituto dei sordomuti poveri;
Adolfo Barberis (1884–1967), fondatore delle Suore del Famulato Cristiano.
Operò
soprattutto per la conversione dei peccatori, dei grandi peccatori. Aveva
l’ambizione di portare i condannati a morte subito in Paradiso, senza passare
per il Purgatorio e per il recupero dei carcerati, è proprio il caso di dirlo,
fece più lui di mille legislazioni.
Era
assiduo delle prigioni Senatorie, tanto da rimanervi fino a tarda notte, a
volte tutta la notte. Portava sigari e tabacco da fiutare, al posto della calce
che i carcerati raschiavano dai muri; ma soprattutto portava alla conversione
ladri e assassini efferati. Erano lenti e tormentati pentimenti, altre volte,
invece, si trattava di conversioni immediate, che avvenivano anche a pochi
istanti prima dell’impiccagione. Il «prete della forca» usava immensa
misericordia, possedendo un’intuizione prodigiosa dei cuori, e trattava i suoi
«santi impiccati» come «galantuomini», tanto che il colpevole sentiva così
forte l’amore paterno da piegarsi e desiderare di morire per arrivare presto in
Paradiso con Gesù, come il buon Ladrone, crocefisso sul Calvario.
Intanto
le aspirazioni patriottiche si ponevano in contrasto con le intenzioni
giacobine e anticristiane. Clero e fedeli venivano spinti a prendere posizioni
estreme e Cafasso adottò una linea precisa: intransigente sulla dottrina e sui
principi, schierato con la Chiesa e con il Papa, ma ugualmente comprensivo con
le anime e saggio moderatore nell’ordine pratico. Al clero piemontese
raccomandò di non invischiarsi nelle questioni politiche, perciò non si
trovarono più sacerdoti in Parlamento,
approvanti le leggi regaliste o pronti a professare l’errore dai pulpiti.
Dotato
nella docenza di calma, accortezza e prudenza, fu, soprattutto, il grande
nemico del peccato, come ha ancora ricordato Benedetto XVI: «Dalla sua cattedra
di teologia morale educava ad essere buoni confessori e direttori spirituali,
preoccupati del vero bene spirituale della persona, animati da grande
equilibrio nel far sentire la misericordia di Dio e, allo stesso tempo, un
acuto e vivo senso del peccato».
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