SANT’ANTONIO ABATE
Caposcuola
del Monachesimo
Dopo
la pace costantiniana, il martirio cruento dei cristiani diventò molto raro. A
questa forma eroica di santità dei primi tempi del cristianesimo, subentrò un
cammino di santità professato da una nuovo stuolo di cristiani, desiderosi di
una spiritualità più profonda, di appartenere solo a Dio e quindi di vivere
soli nella contemplazione dei misteri divini.
Questo
fu il grande movimento spirituale del Monachesimo, che avrà nei secoli
successivi varie trasformazioni e modi di essere, dall’eremitaggio alla vita
comunitaria. Espandendosi dall’Oriente all’Occidente, divenne la grande pianta
spirituale su cui si è poggiata la Chiesa, insieme alla gerarchia apostolica.
Anche
se probabilmente fu il primo a instaurare una vita eremitica e ascetica nel
deserto della Tebaide, sant’Antonio ne fu senz’altro l’esempio più stimolante e
noto, ed è considerato il caposcuola del Monachesimo.
Conoscitore
profondo dell’esperienza spirituale di Antonio, fu sant’Atanasio (295-373)
vescovo di Alessandria, suo amico e discepolo, il quale ne scrisse la
biografia, fonte principale di ciò che sappiamo di lui.
La
scelta di una vita penitente
Antonio
nacque verso il 250 da una agiata famiglia di agricoltori nel villaggio di
Coma, attuale Qumans in Egitto. Verso i 18-20 anni rimase orfano dei genitori,
con un ricco patrimonio da amministrare e con una sorella minore da educare.
Attratto
dall’ammaestramento evangelico «Se vuoi essere perfetto, va’, vendi ciò che
hai, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo, poi vieni e seguimi», e
sull’esempio di alcuni anacoreti che vivevano nei dintorni dei villaggi
egiziani, in preghiera, povertà e castità, Antonio volle scegliere questa
strada. Vendette dunque i suoi beni, affidò la sorella a una comunità di
vergini e si dedicò alla vita ascetica davanti alla sua casa e poi al di fuori
del paese.
Alla
ricerca di uno stile di vita penitente e senza distrazione, chiese a Dio di
essere illuminato. Vide poco lontano un anacoreta come lui, che seduto lavorava
intrecciando una corda, poi smetteva, si alzava e pregava; subito dopo,
riprendeva a lavorare e di nuovo a pregare. Era un angelo di Dio che gli
indicava la strada del lavoro e della preghiera che, due secoli dopo, avrebbe
costituito la base della regola benedettina «Ora et labora» e del Monachesimo
Occidentale.
Parte
del suo lavoro gli serviva per procurarsi il cibo e parte la distribuiva ai
poveri. Sant’Atanasio asserisce che pregasse continuamente e che fosse così
attento alla lettura delle Scritture che la sua memoria sostituiva i libri.
Le
sue tentazioni
Dopo
qualche anno di questa esperienza, in piena gioventù cominciarono per lui
durissime prove. Pensieri osceni lo tormentavano, l’assalivano dubbi sulla
opportunità di una vita così solitaria, non seguita dalla massa degli uomini né
dagli ecclesiastici. L’istinto della carne e l’attaccamento ai beni materiali,
che aveva cercato di sopire in quegli anni, ritornavano prepotenti e
incontrollabili.
Chiese
dunque aiuto ad altri asceti, che gli dissero di non spaventarsi, ma di andare
avanti con fiducia, perché Dio era con lui. Gli consigliarono anche di
sbarazzarsi di tutti i legami e di ogni possesso materiale, per ritirarsi in un
luogo più solitario.
Così,
ricoperto appena da un rude panno, Antonio si rifugiò in un’antica tomba
scavata nella roccia di una collina, intorno al villaggio di Coma. Un amico gli
portava ogni tanto un po’ di pane; per il resto, si doveva arrangiare con
frutti di bosco e le erbe dei campi.
In
questo luogo, alle prime tentazioni subentrarono terrificanti visioni e
frastuoni. In più, attraversò un periodo di terribile oscurità spirituale: lo
superò perseverando nella fede, compiendo giorno per giorno la volontà di Dio,
come gli avevano insegnato i suoi maestri.
Quando
alla fine Cristo gli si rivelò l’eremita chiese: «Dov’eri? Perché non sei
apparso fin da principio per far cessare le mie sofferenze?». Si sentì
rispondere: «Antonio, io ero qui con te e assistevo alla tua lotta…».
Sulle
montagne del Pispir
Scoperto
dai suoi concittadini, che come tutti i cristiani di quei tempi, affluivano
presso gli anacoreti per riceverne consiglio, aiuto, consolazione, ma nello
stesso tempo turbavano la loro solitudine e raccoglimento, allora Antonio si
spostò più lontano verso il Mar Rosso. Sulle montagne del Pispir c’era una
fortezza abbandonata, infestata dai serpenti, ma con una fonte sorgiva: Antonio
vi si trasferì nel 285 e vi rimase per 20 anni.
Due
volte all’anno gli calavano dall’alto del pane. Seguì in questa nuova
solitudine l’esempio di Gesù, che guidato dallo Spirito si ritirò nel deserto
«per essere tentato dal diavolo». Era infatti comune convinzione che unicamente
la solitudine, permettesse all’uomo di purificarsi da tutte le cattive
tendenze, personificate nella figura biblica del demonio e diventare così una
nuova creatura.
Il
discernimento degli spiriti
Certamente
solo persone psichicamente sane potevano affrontare un’ascesi così austera come
quella degli anacoreti. Alcune finivano per andare fuori di testa, scambiando
le proprie fantasie per illuminazioni divine o tentazioni diaboliche.
Non
era il caso di Antonio: veniva attaccato dal demonio, che lo svegliava nel
cuore della notte, oppure gli dava consigli apparentemente per spronarlo a una
maggiore perfezione, in realtà per spingerlo verso l’esaurimento fisico e
psichico e per disgustarlo della vita solitaria. L’eremita invece resistette e
acquistò, con l’aiuto di Dio, il “discernimento degli spiriti”, ossia la
capacità di riconoscere le apparizioni false, comprese quelle che simulavano le
presenze angeliche.
Le
prime comunità di discepoli
Venne
poi il tempo in cui molte persone che volevano dedicarsi alla vita eremitica
giunsero al fortino e lo abbatterono. Antonio uscì e cominciò a consolare gli
afflitti, ottenendo dal Signore guarigioni, liberando gli ossessi e istruendo i
nuovi discepoli.
Si
formarono due gruppi di monaci che diedero origine a due monasteri, uno ad
oriente del Nilo e l’altro sulla riva sinistra del fiume. Ogni monaco aveva la
sua grotta solitaria, ubbidendo però ad un fratello più esperto nella vita
spirituale. A tutti Antonio dava i suoi consigli nel cammino verso la
perfezione dello spirito e l’unione con Dio.
Fuori
dall’eremo per difendere i cristiani
Nel
307 venne a visitarlo il monaco eremita sant’Ilarione (292-372), che fondò a
Gaza in Palestina il primo monastero: i due si scambiarono le loro esperienze
sulla vita eremitica.
Nel
311 Antonio non esitò a lasciare il suo eremo: si recò ad Alessandria, dove
imperversava la persecuzione contro i cristiani, ordinata dall’imperatore
romano Massimino Daia († 313), per sostenere e confortare i fratelli nella
fede, desideroso lui stesso del martirio.
Forse
perché incuteva rispetto e timore reverenziale anche ai Romani, fu risparmiato,
ma le sue uscite dall’eremo si moltiplicarono per servire la comunità
cristiana. Sostenne con la sua influente presenza l’amico vescovo di
Alessandria, sant’Atanasio, che combatteva l’eresia ariana. Scrisse in sua
difesa anche una lettera all’ imperatore Costantino, che non fu tenuta di gran
conto, ma fu importante fra il popolo cristiano.
Nella
Tebaide
Tornata
la pace nell’impero e per sfuggire ai troppi curiosi che si recavano nel
fortilizio del Mar Rosso, decise di ritirarsi in un luogo più isolato. Andò
dunque nel deserto della Tebaide, nell’Alto Egitto, dove prese a coltivare un
piccolo orto per il sostentamento suo e di quanti, discepoli e visitatori, si
recavano da lui.
Visse
nella Tebaide fino al termine della sua lunghissima vita. Poté seppellire il
corpo dell’eremita san Paolo di Tebe con l’aiuto di un leone; per questo è
considerato patrono dei seppellitori.
Negli
ultimi anni accolse presso di sé due monaci che l’accudirono nell’estrema
vecchiaia. Morì a 106 anni, il 17 gennaio del 356 e fu seppellito in un luogo
segreto.
L’eredità
spirituale
La
sua presenza aveva attirato anche nella Tebaide tante persone desiderose di una
vita più spirituale. Tanti scelsero di seguire il suo stile: così fra quei
monti sorsero monasteri. Il deserto si popolò di monaci, i primi di quella
moltitudine di uomini consacrati che in Oriente e in Occidente portarono avanti
quel cammino da lui iniziato, ampliandolo e adattandolo alle esigenze dei
tempi.
I
suoi discepoli tramandarono alla Chiesa la sua sapienza, raccolta in 120 detti
e in 20 lettere. Nella Lettera 8, sant’Antonio scrisse ai suoi: «Chiedete con
cuore sincero quel grande Spirito di fuoco che io stesso ho ricevuto, ed esso
vi sarà dato».
La
protezione contro l’herpes zoster
Nel
561 fu scoperto il suo sepolcro e le reliquie cominciarono un lungo viaggiare
nel tempo e nello spazio, da Alessandria a Costantinopoli, fino ad arrivare in
Francia, nell’XI secolo, a Motte-Saint-Didier, dove fu costruita una chiesa in
suo onore.
In
questa chiesa affluivano a venerarne le reliquie folle di malati, soprattutto
affetti da ergotismo canceroso, causato dall’avvelenamento di un fungo presente
nella segale, usata per fare il pane.
Il
morbo, oggi scientificamente noto come herpes zoster, era conosciuto sin
dall’antichità come “ignis sacer” (“fuoco sacro”) per il bruciore che
provocava. Per ospitare tutti gli ammalati che giungevano, si costruì un
ospedale e venne fondata una confraternita di religiosi, l’antico ordine
ospedaliero degli ‘Antoniani’; il villaggio prese il nome di Saint-Antoine de
Viennois.
Il
maiale, il fuoco, il “tau”
Il
Papa accordò agli Antoniani il privilegio di allevare maiali per uso proprio e
a spese della comunità, per cui i porcellini potevano circolare liberamente fra
cortili e strade; nessuno li toccava se portavano una campanella di
riconoscimento.
Il
loro grasso veniva usato per curare l’ergotismo, che venne chiamato “il male di
s. Antonio” e poi “fuoco di s. Antonio”. Per questo motivo, nella religiosità
popolare, il maiale cominciò ad essere associato al grande eremita egiziano,
poi considerato il santo patrono dei maiali e per estensione di tutti gli
animali domestici e della stalla. Sempre per questa ragione, è invocato contro
le malattie della pelle in genere.
Nella
sua iconografia compare oltre al maialino con la campanella, anche il bastone
degli eremiti a forma di T, la “tau” ultima lettera dell’alfabeto ebraico e
quindi allusione alle cose ultime e al destino.
Una
leggenda popolare, che collega i suoi attributi iconografici, narra che
sant’Antonio si recò all’inferno, per contendere l’anima di alcuni morti al
diavolo. Mentre il suo maialino, sgaiattolato dentro, creava scompiglio fra i
demoni, lui accese col fuoco infernale il suo bastone a forma di “tau” e lo
portò fuori insieme al maialino recuperato: donò il fuoco all’umanità,
accendendo una catasta di legna.
La
devozione popolare
Nel
giorno della sua memoria liturgica, si benedicono le stalle e si portano a
benedire gli animali domestici. In alcuni paesi di origine celtica,
sant’Antonio assunse le funzioni della divinità della rinascita e della luce,
Lug, il garante di nuova vita, a cui erano consacrati cinghiali e maiali.
Perciò, in varie opere d’arte, ai suoi piedi c’è un cinghiale.
Patrono
di tutti gli addetti alla lavorazione del maiale, vivo o macellato, è anche il
patrono di quanti lavorano con il fuoco, come i pompieri, perché guariva da
quel fuoco metaforico che era l’herpes zoster.
Ancora
oggi il 17 gennaio, specie nei paesi agricoli e nelle cascine, si usano
accendere i cosiddetti “focarazzi” o “ceppi” o “falò di sant’Antonio”, che
avevano una funzione purificatrice e fecondatrice, come tutti i fuochi che
segnavano il passaggio dall’inverno alla imminente primavera. Le ceneri, poi
raccolte nei bracieri casalinghi di una volta, servivano a riscaldare la casa
e, tramite un’apposita campana fatta con listelli di legno, per asciugare i
panni umidi.
Veneratissimo
lungo i secoli, il suo nome è fra i più diffusi del cattolicesimo. Lo stesso
sant’Antonio di Padova, proprio per indicare il suo desiderio di maggior
perfezione, scelse di cambiare il nome di Battesimo con il suo. Nell’Italia
Meridionale, per distinguerlo da lui, l’eremita della Tebaide è infatti
chiamato “Sant’Antuono”.
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