FRA GIUSEPPE MICHELE GHEZZI


A Lecce, nella nobile casa dei Conti Ghezzi, Michele nacque il 19 agosto 1872, quarto di sette fratelli. Il padre Pasquale, avvocato, era Duca di Carpignano, la madre, Carmela Carrozzini, era Baronessa di Soleto, entrambi molto pii. Michelino, come era familiarmente chiamato, d’animo sensibilissimo, aveva anche l’esempio di due prozii missionari e della nonna che aprì le porte di casa ai gesuiti colpiti dalle leggi anticlericali. Bambino vivace, impulsivo, a volte anche prepotente, ricevette una prima istruzione in casa, come era consuetudine nelle famiglie agiate. Si iscrisse poi, da esterno, al Collegio Argento dei Gesuiti ma a sedici anni, per gravi problemi di salute, fu costretto a ritirarsi. Le lunghe cure, inevitabilmente, lo portarono ad isolarsi e lui trovò il conforto nella preghiera. Profondamente religioso, come passatempo costruiva presepi. Quando si rese necessaria una delicata operazione chirurgica, la madre decise che prima si sarebbero rivolti alla Madonna di Pompei. La guarigione arrivò e, per segnalare la grazia, fu Michele in persona che scrisse una lettera al beato Bartolo Longo.
Giovane ventunenne, finalmente in salute, contrariamente ai fratelli che, seguendo le orme paterne, studiarono Legge, intraprese gli studi di pittura. Mise in pratica però, soprattutto, gli inviti del Vangelo che ascoltava fin da quando era bambino. Sue confidenti privilegiate erano la madre e la sorella minore. Iniziò ad aiutare in parrocchia, a insegnare il catechismo ai bambini preparandoli alla confessione e alla comunione e, grande devoto dell’Eucaristia, accompagnava volentieri i sacerdoti al capezzale dei malati. Aderì alla “San Vincenzo”, all’Opera di Propaganda Fede, all’Opera della Santa Infanzia: sapeva bene che “la fede senza le opere è morta” e a quei tempi la miseria era ad ogni angolo di strada. Lui, il figlio del Conte, per aiutare i poveri cominciò a tendere la mano anche oltre il cerchio delle conoscenze e mentre avvicinava, sia benefattori che bisognosi, dava consigli e conforto. Sebbene fosse giovane, in molti trovarono sollievo nelle sue parole, nel suo sguardo e nel suo abbraccio. Amava il grande santo di Assisi che da ricco si era fatto povero per amore del Signore e Michele, proprio nella spiritualità francescana, trovò la risposta al proprio futuro. Entrò in contatto con il Terz’Ordine grazie a Donna Letizia Balsamo, mentre due gravi lutti lo portarono definitivamente sulla strada della consacrazione religiosa. Quando aveva ventisei anni morì, quasi improvvisamente, il padre, quattro anni dopo fu la volta della madre, la “complice” delle sue opere di pietà.
In quegl’anni, superata anche a Lecce la tempesta delle soppressioni religiose, i Minori Riformati, proprio grazie a Donna Balsamo, prendevano sede stabile presso “il podere di Fulgenzio”, un’antica dimora quattrocentesca posta appena fuori dal centro cittadino, che i frati adattarono alle proprie esigenze. Michele decise di entrare tra i francescani declinando l’invito del vescovo che lo avrebbe accolto volentieri tra il suo clero. Determinato a non diventare sacerdote, bussò al convento di S. Antonio. Aveva trentatre anni e i frati dovettero superare non poche perplessità. Per quei tempi era un postulante “troppo maturo”, la salute restava cagionevole e soprattutto era un nobile che in città conoscevano tutti. Michele insistette. Fece il suo ingresso in convento il 2 agosto 1906, con l’intento di servire Dio e i fratelli “in qualche piccolo servizio”. Alla sorella, che da quattro anni era carmelitana a Bari col nome di suor Maria Clotilde, scrisse: “Quanto è buono il Signore!”.
Partì per la casa di noviziato di Galatone, ormai era fra’ Giuseppe. La sua celletta era di fronte a quella abitata da S. Egidio Maria da Taranto che prese a modello. I problemi di salute, però, fecero posticipare la professione. Poteva giovargli il cambiamento d’aria e quindi tornò a Lecce, poi fu mandato al convento di Squinzano. Professò finalmente l’8 settembre 1909. Nell’umile veste di fratello laico visse in diversi conventi della Provincia di Terra d’Otranto: Manduria, Martano, Francavilla Fontana, Soleto. Nelle varie comunità ricopriva solitamente il compito di sacrestano e di questuante e quindi il “Conte con la bisaccia” diveniva presto familiare. Fu fedele ai suoi incarichi anche quando, a causa di una infezione al mignolo del piede (che gli fu amputato senza anestesia), poté svolgerli a gran fatica. Il passo divenne incerto, fu costretto quasi a trascinarsi di porta in porta a costo di non poche umiliazioni, ma lui confidava: “Deve essere bello vedersi sbattere le porte in faccia”. Fu a Manduria e a Lecce durante la Prima Guerra Mondiale e proprio l’8 dicembre 1915, a quarantatre anni, fece la professione perpetua. Giungevano dal fronte le tristi notizie della morte di tanti giovani e i problemi di salute divennero, per fra’ Giuseppe, strumento di espiazione. Alla sorella carmelitana scrisse: “Raccomandiamoci al Signore che ci aiuti a diventare più buoni e ci conceda la grazia specialissima di offrirci vittime d’immolazione per i peccati degli uomini”. Nel 1916, per un’infezione, le gambe divennero piagate e sanguinolente. Faceva pena vederlo, ma lui tutto offriva in suffragio delle tante vittime che l’odio andava mietendo in tutta Europa. Per penitenza, di notte, riposava su una sedia.
Anche nel Salento i tempi difficili del dopoguerra lasciarono il posto alla vita normale. Appena gli fu possibile riprese a questuare diffondendo le riviste missionarie, noncurante del fatto che, per il suo zoppicare, era a volte deriso. Passarono gli anni, arrivò il Fascismo, scoppiò la Seconda Guerra Mondiale, con i suoi morti e con i suoi orrori e fra Giuseppe nulla poteva se non pregare. Dal 1948 la frattura del femore sinistro lo costrinse alla sedia a rotelle e a non lasciare più il convento di Lecce. Furono allora i suoi tanti devoti a ricambiare le innumerevoli visite che l’umile frate aveva fatto durante il suo semplice quanto fecondo apostolato.
Frate Michele fu soprattutto un uomo di preghiera. Scrisse: “Oh Signore, l’incenso della mia umile preghiera si innalzi a te come lode perpetua, adorazione incessante, benedizione eterna, riparazione continua. Tutti i palpiti del mio povero cuore ti dicano e ti ripetano incessantemente: Ti amo Gesù mio!”. Da sempre devotissimo della Madonna, memore della prodigiosa guarigione di quando era ragazzo, recitava più volte al giorno il rosario, coinvolgendo quanti poteva, inginocchiandosi anche in cucina di fronte alle pentole. Non ostentò mai la sua cultura, che almeno dal punto di vista religioso era eccellente, avendo studiato dai gesuiti ed appartenendo ad una famiglia benestante. Non primeggiò mai sui confratelli o su quanti entravano in contatto con lui. Era un contemplativo, cercò per tutta la vita solo di raggiungere la vetta della santità. Era cercato di continuo, si diffuse pure la fama che operasse dei miracoli.
Dopo il Natale 1954 la salute peggiorò velocemente, fra Michele morì la sera del 9 febbraio 1955. Nel ricomporre la salma si scoprì che aveva indosso diversi strumenti di penitenza. Il funerale fu solenne e trionfale, con un’eco vastissima.
Nel 2000 Papa Giovanni Paolo II ha promulgato il decreto sulla eroicità delle virtù conferendogli il titolo di venerabile.

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