SANT’AMBROGIO
Milano
374. In una delle chiese della città, gremita fino all’inverosimile, presbiteri
e laici, vecchi e giovani, cattolici e ariani stavano discutendo animatamente
sul nome del successore del vescovo Assenzio (ariano) morto di recente. Era un
po’ di tempo ormai che le due fazioni si affrontavano animatamente anche per le
strade, con qualche pericolo per l’ordine pubblico. Non si poteva far finta di
niente.
E
infatti Ambrogio, il governatore (della Lombardia, Liguria ed Emilia, con sede
appunto a Milano) si recò in quella chiesa per calmare gli animi e per
incoraggiare il popolo a fare la scelta del nuovo vescovo in un clima di
dialogo, di pace e di rispetto reciproco. Il popolo accolse le sue esortazioni,
anche perché era un governatore imparziale, stimato e ben voluto dalla
popolazione essendosi dedicato sempre al bene di tutti. La sua missione di
funzionario pubblico sembrava compiuta e con successo, quando accadde
l’imprevisto che gli cambierà completamente la vita.
Qualcuno
dalla folla, sembra un bambino, gridò forte: “Ambrogio vescovo” e l’intera
assemblea, cattolici e ariani, vecchi e giovani, presbiteri e laici, quasi
folgorati da quel grido (era un’ispirazione dall’alto?) ripeterono a loro volta
“Ambrogio vescovo”. Non si diceva già allora “Vox populi, vox Dei”?.
A
furor di popolo, ecco trovata la soluzione allo spinoso problema. Tutti
d’accordo sul nuovo vescovo: il loro governatore, anche se era un semplice
catecumeno e per giunta senza ambizioni ecclesiastiche. E l’interessato? Per la
verità non era proprio entusiasta. Proprio lui ancora semplice catecumeno e per
di più a completo digiuno di teologia (quindi senza un’adeguata preparazione ad
essere vescovo)? Sembrava tutto assurdo.
Si
appellò a Valentiniano protestando la propria inadeguatezza all’incarico
“datogli” dal popolo. Non trovò una sponda favorevole nell’imperatore: anzi
questi gli disse che si sentiva lui stesso lusingato per aver scelto un
governatore “politico” (Ambrogio) che era stato ritenuto degno persino di
svolgere l’ufficio episcopale (anche perché allora il vescovo di Milano aveva
una specie di giurisdizione su quasi tutto il Nord Italia, quindi era un
incarico molto prestigioso).
Ed
Ambrogio accettò. Fu così che nel giro di una settimana venne battezzato e poi
consacrato vescovo, il 7 dicembre del 374. Cominciava così per lui una seconda
vita.
Un
vescovo tutto per Dio e tutto per il popolo
Ambrogio
era nato a Treviri, in Germania, da una nobile famiglia romana della Gens
Aurelia. Suo padre era governatore delle Gallie, quindi un importante
funzionario imperiale. Quando questi improvvisamente morì, Ambrogio con la
sorella Marcellina (Santa) e la madre ritornarono a Roma. Qui continuò gli
studi, imparò il greco e divenne un buon poeta e un oratore. Proseguì poi gli studi
per la carriera legale ottenendo molti successi in questo campo come avvocato,
finché l’imperatore Valentiniano lo nominò nel 370 governatore, con residenza a
Milano. Una carriera impressionante.
Ambrogio
fece il governatore solo quattro anni, ma la sua opera fu molto incisiva.
Era
un uomo al di sopra delle parti e dei partiti, aveva costantemente l’occhio
rivolto al bene di tutta la popolazione, non escludendo nessuno specialmente i
poveri. Questo atteggiamento gli guadagnò non solo la stima ma addirittura
l’affetto sincero di tutta la popolazione, senza distinzione. Possiamo dire che
fece così bene il governatore che il Popolo di Dio (con l’imperatore e il
Vescovo di Roma Papa Damaso) lo ritennero degno di fare il vescovo. E la
“promozione” non era da poco.
Fatto
vescovo, decise di rompere ogni legame con la vita precedente: donò infatti le
sue ricchezze ai poveri, le sue terre e altre proprietà alla Chiesa, tenendo
per sé solo una piccola parte per provvedere alla sorella Marcellina, che anni
prima si era consacrata Vergine nella Basilica di San Pietro durante una
solenne liturgia di Natale, presente il Papa Liberio. Ambrogio ebbe sempre una
grande stima per la madre, per la sorella e per la decisione presa da lei.
Consapevole
della sua impreparazione culturale in campo teologico, si diede allo studio
della Scrittura e alle opere dei Padri della Chiesa, in particolare Origene,
Atanasio e Basilio. La sua vita era frugale e semplice, le sue giornate dense
di incontri con la gente, di studio e di preghiera. Ambrogio studiava e poi
faceva sostanza della sua preghiera ciò che aveva studiato, quindi, dopo aver
pregato, scriveva e quindi predicava. Questo era il suo modo di porgere la
Parola di Dio al popolo. Lo stesso Agostino d’Ippona ne rimase affascinato tanto
da sceglierlo come maestro nella fede, proprio perché con il suo modo di fare e
di predicare aveva contribuito alla sua conversione (insieme alla madre Monica,
e naturalmente allo Spirito Santo).
Ogni
giorno diceva la Messa per i suoi fedeli dedicandosi poi al loro servizio per
ascoltarli, per consigliarli e per difenderli contro i soprusi dei ricchi.
Tutti potevano parlargli in qualsiasi momento. Ed è anche per questo che il
popolo non solo lo ammirava ma lo amava sinceramente.
È
rimasto famoso il suo comportamento quando alcuni soldati nordici avevano
sequestrato, in una delle loro razzie, uomini donne e bambini. Ambrogio non
esitò a fondere i vasi sacri della chiesa per pagare il loro riscatto. E a
coloro (gli ariani) che ebbero il coraggio di criticarlo per l’operato rispose:
“Se
la Chiesa ha dell’oro non è per custodirlo, ma per donarlo a chi ne ha
bisogno... Meglio conservare i calici vivi delle anime che quelli di metallo”.
“Dove
c’è Pietro, c’è la Chiesa”
La
Chiesa del tempo di Ambrogio attraversava una grave turbolenza dottrinale: la
presenza cioè dell’eresia ariana, originata e predicata da Ario. Questi negava
la divinità di Cristo e la sua consustanzialità col Padre, affermando che anche
lui era una semplice creatura, scelta da Dio come strumento di salvezza. Come
si vede un’eresia dirompente e devastante per la cristianità, che minacciava il
centro stesso del Cristianesimo: Gesù Cristo, e questi Figlio di Dio.
Purtroppo
ebbe molti seguaci anche nei ranghi alti delle autorità e cioè imperatori e imperatrici,
governatori, ufficiali dell’esercito romano che la sostennero con il loro peso
politico e militare. Ambrogio conosceva il problema già da governatore, ma
dovette affrontarlo specialmente da vescovo di Milano scontrandosi addirittura
con la più alta autorità: quella imperiale.
Nel
386 fu approvata una legge che autorizzava le assemblee religiose degli ariani
e il possesso delle chiese, ma in realtà bandiva quelle dei cristiani
cattolici. Pena di morte a chi non obbediva.
Ambrogio
incurante della legge e delle conseguenze personali, si rifiutò di consegnare
agli ariani anche una sola chiesa. Arrivarono le minacce contro di lui. Allora
il popolo, temendo per il proprio vescovo, si barricò nella basilica insieme
con lui. Le truppe imperiali circondarono e assediarono la chiesa, decisi a
farli morire di fame. Ambrogio, per occupare il tempo, insegnò ai suoi fedeli
salmi e cantici composti da lui stesso e raccontò al popolo tutto ciò che era
accaduto tra lui e l’imperatore Valentiniano, riassumendo il tutto con la
famosa frase: “L’imperatore è nella Chiesa, non sopra la Chiesa”.
Nel
frattempo Teodosio il Grande, imperatore d’Oriente, dopo aver sconfitto e
giustiziato l’usurpatore Massimo che aveva invaso l’Italia, reintegrò
Valentiniano (facendogli abbandonare l’arianesimo) e si fermò per un po’ di
tempo a Milano.
La
riconoscenza di Ambrogio all’imperatore tuttavia non gli impedì di affrontarlo
in ben due occasioni, quando ritenne che il suo comportamento era riprovevole e
condannabile pubblicamente. Fu specialmente dopo l’infame massacro di
Tessalonica del 390, in cui morirono più di settemila persone, tra cui molte
donne e bambini, in rivolta per la morte del governatore. Furono uccisi tutti
senza distinzione di innocenti e colpevoli.
Ambrogio,
inorridito per l’accaduto, insieme ai suoi collaboratori ritenne responsabile
pubblicamente Teodosio stesso, invitandolo a pentirsi. Alla fine l’imperatore
cedette e piegò la testa. Questo spiega la grande autorità morale di cui godeva
il vescovo. Teodosio morì tre anni dopo e lui stesso ne fece un sincero elogio
lodandone l’umiltà e il coraggio di ammettere le proprie colpe, additandone
l’esempio anche agli inferiori.
Ambrogio
non solo fu un baluardo a difesa della fede cattolica contro l’eresia ariana,
ma si adoperò a difendere anche il Vescovo di Roma, Papa Damaso contro
l’antipapa Ursino. Egli così riconosceva la funzione ed il primato del Vescovo
della Città Eterna (in quanto successore di Pietro) come centro e segno di
unità per tutti i cristiani.
È a
lui che si deve la famosa frase che recita: “Ubi Petrus, ibi Ecclesia” (Dove
c’è Pietro, lì c’è la Chiesa), e l’altra: “In omnibus cupio sequi Ecclesiam
Romanam” e cioè “In tutto voglio seguire la Chiesa Romana” quasi
un’attestazione del primato della Chiesa di Roma, sul quale la discussione
andrà avanti per secoli e, come si sa, non è ancora finita.
Per
i suoi molteplici scritti teologici e scritturistici è uno dei quattro grandi
dottori della Chiesa d’Occidente, insieme a Gerolamo, Agostino e Gregorio
Magno.
Nella
Lettera apostolica Operosam Diem (1996) per il centenario della morte di
Ambrogio, Giovanni Paolo II, di venerata memoria, ha messo in risalto due
importanti aspetti del suo insegnamento: il convinto cristo-centrismo e la sua
originale Mariologia.
Ambrogio
viene considerato l’iniziatore della Mariologia latina. Giovanni Paolo II (in
Operosam diem, n. 31):
“Di
Maria Ambrogio è stato il teologo raffinato e il cantore inesausto. Egli ne
offre un ritratto attento, affettuoso, particolareggiato, tratteggiandone le
virtù morali, la vita interiore, l’assiduità al lavoro e alla preghiera.
Pur
nella sobrietà dello stile, traspare la sua calda devozione alla Vergine, Madre
di Cristo, immagine della Chiesa e modello di vita per i cristiani.
Contemplandola nel giubilo del Magnificat, il santo vescovo di Milano esclama:
“Sia in ciascuno l’anima di Maria a magnificare il Signore, sia in ciascuno lo
spirito di Maria a esultare in Dio”.
Del
suo cristo-centrismo così ha scritto Giovanni Paolo II:
“Al
centro della sua vita, sta Cristo, ricercato e amato con intenso trasporto. A
Lui, tornava continuamente nel suo insegnamento. Su Cristo si modellava pure la
carità che proponeva ai fedeli e che testimoniava di persona... Del mistero
dell’Incarnazione e della Redenzione, Ambrogio parla con l’ardore di chi è
stato letteralmente afferrato da Cristo e tutto vede nella sua luce”.
Questo
suo pensiero centrale può essere sintetizzato nella famosa frase del De
Virginitate “Cristo per noi è tutto”.
Ambrogio
visse e operò totalmente e incessantemente tutto per Cristo e tutto per la Sua
Chiesa. Il suo amore a Cristo era inscindibile dal suo amore alla Chiesa.
Operare per far crescere l’amore a Cristo significava per lui lavorare,
soffrire, studiare, predicare, piangere, rischiare la vita davanti ai potenti
del tempo per la Chiesa, popolo di Dio, perché Ambrogio era profondamente
convinto che “Fulget Ecclesia non suo, sed Christi lumine” (La Chiesa risplende
non di luce propria ma di quella di Cristo), senza dimenticare mai che “Corpus
Christi Ecclesia est”, (Il Corpo di Cristo è la sua Chiesa), quindi i fedeli
possono benissimo dire tutti: “Nos unum corpus Christi sumus”.
E
per questi fedeli, che sono la Chiesa, che è il corpo di Cristo, e per amore di
Cristo presente nella Sua Chiesa, Ambrogio vescovo lavorò, studiò, rischiò la
vita, pianse, pregò, predicò, viaggiò e scrisse libri fino alla fine. Questa
arrivò, per la verità non inaspettata, il 4 aprile, all’alba del Sabato Santo
quando correva l’anno 397.
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