SAN GIUSEPPE BENEDETTO COTTOLENGO
La
gente lo chiama “il canonico buono” e tale è senz’altro, almeno per l’arcinota
locuzione secondo cui la “vox populi” è facilmente identificabile con la “vox
Dei”. Il che, tuttavia, non significa che “buono” equivalga a “convertito”,
essendo la conversione una questione di cuore, che riguarda squisitamente il
rapporto della creatura con il suo Creatore ed alla quale, il più delle volte,
si arriva percorrendo la strada dei poveri: così è successo per madre Teresa di
Calcutta, altrettanto per il canonico Giuseppe Benedetto Cottolengo, che della
misericordia incarnata con la fantasia della carità è icona quantomai
eloquente.
Basterebbe,
per provarlo, considerare il fatto che una delle due “porte sante” della
diocesi torinese, nell’Anno Santo della Misericordia, è stata aperta proprio
nel grandioso complesso della carità che dal suo fondatore prende nome, anche
se alla parola Cottolengo si collega più facilmente la struttura, l’edificio,
la realtà caritativa, che non la persona. A quest’ultima possiamo dedicare solo
alcune rapide pennellate, scegliendole tra quelle più strettamente connesse con
la misericordia.
Prendiamo
le mosse dalle origini della famiglia Couttolenc, che non sono italiane, ma
francesi, precisamente di Saint-Pons de Barcellonette nell’Alta Provenza,
mentre di origini italianissime è la mamma, Benedetta Chiarotti, nata a
Savigliano, dove di recente hanno individuato la casa abitata fino al giorno
del matrimonio da questa donna, alla cui fede e devozione siamo debitori delle
tre vocazioni sacerdotali sbocciate tra i suoi figli e, almeno in parte, della
santità del suo primogenito.
Giuseppe
Benedetto nasce a Bra nel 1886 e fatica a realizzare la sua vocazione per tutte
le limitazioni che Napoleone impone in quegli anni ai seminari e agli istituti
religiosi, ma fa in tempo ad essere ordinato prete alla soglia dei suoi 25
anni.
Lo
mandano viceparroco a Corneliano d’Alba e qui stupisce tutti perché prega,
lavora, veglia i malati di notte, si dedica ai poveri con una generosità tale
che ci rimette di salute e mamma è talmente preoccupata da convincerlo e
riprendere gli studi ed a pensare un po’ di più a se stesso.
Don
Giuseppe ubbidisce fin troppo: torna a Torino, riprende i libri in mano, si
laurea in teologia e diventa un canonico dotto, stimato e ricercato da molta
gente come predicatore e confessore. Non si dimentica dei poveri, svolge
addirittura una qualche attività sociale a favore dei più bisognosi, ma
fondamentalmente resta un prete ben “sistemato”, con una bella camera, uno
stipendio più che buono e la prospettiva di una carriera brillante.
Tutto
questo però gli lascia l’amaro in bocca, reso inquieto, incerto, talvolta
scostante e burbero, spesso anche triste e taciturno: un prete insoddisfatto,
insomma, che è quanto di meno ci si possa augurare, soprattutto se si considera
che ad andare in crisi esistenziale non è un seminarista o un giovane prete,
bensì un uomo di 42 anni. Che ha sì, come egli stesso scrive a mamma, «la
faccia rotonda qual luna piena», il che sarebbe indice di buona salute, ma
l’animo cupo di chi si accorge di non aver ancora fatto nulla di buono nella
vita, tanto che il superiore gli ordina di leggere la vita di San Vincenzo de’
Paoli perché almeno abbia un argomento su cui discutere con i confratelli a
tavola.
La
svolta (o «la grazia della Madonna», come la chiama lui) arriva il 2 settembre
1827, quando la misericordia irrompe nella sua vita in modo tragico e
imprevedibile. In quella notte accorre, chiamato per gli ultimi sacramenti,
accanto al pagliericcio di un dormitorio pubblico, su cui agonizza Giovanna
Gonnet, una giovane francese, mamma di tre figli e in avanzato stato di
gravidanza, non ricoverata negli ospedali torinesi perché incinta, rifiutata
dal reparto di maternità perché tubercolotica. La vicenda si chiude nel modo
più tragico, con una bimba nata prematura che vive poche ore appena, seguita
subito nella tomba dalla mamma, uccisa dalla tubercolosi.
Impietrito
e sconvolto, domandandosi perché proprio a lui sia toccato essere testimone di
una simile tragedia, improvvisamente si accorge che la misericordia ha fatto
irruzione nella sua vita, sconvolgendola e rivoluzionandola in pieno. Per
questo accende tutte le candele dell’altare, fa suonare le campane e intona le
litanie lauretane: da quel giorno non sarà più il prete che fa anche «qualcosa
per i poveri», perché la Madonna gli ha fatto la grazia di trasformarlo nel
«prete dei poveri», che saranno i suoi veri «signori e padroni».
D’ora
in poi, tutta l’attività del Canonico, repentinamente convertito alla causa dei
poveri, si svolge all’insegna del paolino «Caritas Christi urget nos!», motto
che ci siamo abituati a veder inciso a caratteri cubitali, anche dalle nostre
parti, ovunque sono state chiamate ad operare le suore del Cottolengo, quasi a
esplicitare, se mai ce ne fosse bisogno, la forza motrice, che da quel momento
letteralmente lo spinge.
Talmente
“spinto” da non poter perdere tempo: il 17 gennaio 1828, cioè appena pochi mesi
dopo lo sconvolgente dramma vissuto il precedente 2 settembre, già prende in
affitto alcune stanze nella casa detta della “Volta Rossa”, al civico 19 di Via
Palazzo di Città, in pieno centro urbano, per farne il “Deposito de’ poveri
infermi del Corpus Domini”.
È
costretto a vendere tutto, anche il mantello, per far fronte alle prime spese
per i ricoverati, che non si fanno attendere, visto che in quella stessa
giornata le porte già si aprono per accogliere i primi due, Giuseppe Dana e
Margherita Andrà; di lei si sa che è completamente paralitica e senza parenti,
abbandonata a se stessa.
Fin
dal primo giorno si delineano così le caratteristiche della nuova istituzione,
nata per rispondere alle esigenze di chi non ha veramente nulla, neppure i
parenti, e che nessuno vuole ricoverare, in quanto incurabile.
Perché
a Torino non mancherebbero le istituzioni di assistenza e beneficenza; sono
piuttosto le rigidissime regole interne ad impedire di fatto che ne
usufruiscano i più bisognosi, il più delle volte ad esclusivo carico di
famiglie magari già ridotte in stato di indigenza o, peggio ancora,
completamente abbandonati a se stessi.
Ed è
principalmente di questi che vuole farsi carico il Cottolengo, e con un tale
ardore e così tanta abnegazione da incontrare fin da subito l’opposizione ed i
contrasti dei parenti e dei confratelli, con l’unica eccezione del suo diretto
superiore, che gli fa da sponda, raccomandando a tutti di «lasciarlo fare».
A
dar sollievo a chi lamenta che quella strada e quella casa sono ormai diventati
ricettacolo di ogni umana miseria, arriva il colera, con la chiusura
dell’ospedaletto per paura del contagio. Non conoscerebbe a fondo il Cottolengo
chi pensasse che possa bastare un’epidemia per farlo desistere; da buon
braidese esperto di orticoltura, sa benissimo che «i cavoli trapiantati riescono
meglio» e con questa speranza in cuore, ad aprile 1832, “trapianta” la sua
neonata creatura in zona Valdocco, Borgo Dora: non più semplice “ospedaletto”
di emergenza sanitaria, ma vera e propria “Casa”, intitolata a chi di quella
struttura è la vera unica proprietaria, cioè la Divina Provvidenza.
Per
non far torto alla quale non vuole saperne di contabilità o di rendiconti,
profondamente convinto che “a chi straordinariamente confida, Dio
straordinariamente provvede”. Lo sperimenta tutti i giorni, toccando con mano
fin dove sa arrivare il buon Dio, con un‘eleganza ed una tempestività che ha
dello strepitoso e che in pratica equivale al sigillo celeste sull’intera
istituzione.
In
base alle esigenze che di volta in volta gli si appalesano, nascono numerosi
gruppi che denomina “famiglie”: l’ospedale per i malati, la casa per uomini e
donne anziani, le famiglie dei sordomuti, degli epilettici, dei disabili
psichici detti “Buoni Figli” e “Buone Figlie”, dove l’aggettivo “buono” sembra
aggiunto apposta per esplicitare la tenerezza di Dio nei confronti dei più
poveri tra i poveri e che il Cottolengo si sforza di tradurre in gesti concreti
di carità.
Fior
fior di medici e farmacisti, tra cui anche il farmacista regio, si alternano a
volontari, professionisti, muratori e benefattori che mettono a servizio della
Provvidenza e dei poveri le proprie capacità e il proprio tempo.
Fioriscono
come dal nulla le Suore Vincenzine, poi le Suore della Divina Pastora, a
seguire le Carmelitane Scalze, le Suore del Suffragio e le Suore Penitenti; sul
versante maschile, i Fratelli di San Vincenzo e i Sacerdoti della SS. Trinità.
Non male per un prete che, appena qualche anno prima, tirava stancamente la sua
vocazione, senza slancio e senza entusiasmo.
Il “manovale della Provvidenza” muore a Chieri il 30
aprile 1842, a 56 anni, più di 40 dei quali vissuti nel più assoluto anonimato
e solo gli ultimi 14 all’insegna della misericordia, che lo aveva tuttavia
spinto a scelte concrete e a volte scomode per i poveri, come ad esempio quella
di far fare anticamera al vescovo di Vercelli per terminare una partita di
bocce con un ricoverato: perché l’amore e la tenerezza sanno dare anche queste
precedenze.
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