SERVO DI DIO GIUSEPPE MARIA DA PALERMO
Vincenzo nacque a
Palermo il primo febbraio 1864 da una famiglia benestante. Il Padre Nicolò era
ispettore del genio civile, la madre Rosa era casalinga.
La figura di Fra
Giuseppe si colloca in un periodo in cui dopo l’Unità d’Italia, la realtà
siciliana era al centro dello scontro politico. La città di Palermo se da un
lato si presenta come paradiso in terra, grazie alla gentilezza dei suoi
abitanti, alla struggente bellezza della natura, al clima, alle magnifiche opere
architettoniche di cui si abbellisce e per le quali viene definita come una
delle città più belle d’Europa, dall’altro lato offre di sé un altro aspetto: è
la città che conserva e protegge i luoghi che hanno visto omicidi, violenze,
avvertimenti di prepotenza; luoghi di delitti, di latitanti introvabili solo
per le Istituzioni, ma non per i cittadini; luoghi di interessate reticenze o
segnali di omertà, che fanno fuggire o assolvere i responsabili di gravi
crimini.
Questo stato di cose
prolifera facilmente soprattutto perché il governo è impotente: pur essendo gli
stessi in Sicilia come nel continente d’Italia, quegli ordinamenti giudiziari e
amministrativi che devono assicurare l’applicazione delle Leggi, l’efficacia
degli stessi ordinamenti non è la medesima. Infatti, per prevenire i delitti,
per punirli, per mantenere l’ordine e l’osservanza delle Leggi, la Polizia, la
Magistratura, l’Autorità, hanno bisogno di querele, di denunce, di
testimonianze, hanno bisogno della cooperazione dei cittadini. Ma questa è la
terra dell’omertà, della paura, del dominio dei forti sui deboli.
Questa visione così
pessimistica della società siciliana è attenuata dall’azione di alcuni uomini
di pace, i quali mettono in evidenza quell’amor proprio tipico degli isolani, capace
di suscitare elementi morali idonei a farli progredire rapidamente, quando le
circostanze non vi si oppongono.
Va serpeggiando, ma il
cammino è ancora lungo, presso coloro che non si facevano intimorire dagli
avvenimenti delittuosi, il desiderio di cambiare.
In questo contesto non
dei più facili nasce il giovane Vincenzo.
Durante l’infanzia e i
primi anni della fanciullezza il piccolo Vincenzo si mostrò di buon cuore e di
buona indole, ma irrequieto fuori dalla norma.
Nell’anno 1873 Vincenzo
ed il fratello Enrico furono iscritti all’Istituto Randazzo, per un solo anno.
A dieci anni studiò
nelle scuole elementari dell’Istituto Nautico, e appena terminato l’anno
scolastico tornò all’Istituto Randazzo, e vi rimase fino al 1877. In questo
periodo i genitori cercarono di crescere il figlio alla luce degli insegnamenti
della religione, ma con risultati deludenti.
Ad influire
negativamente sul carattere oltremodo irrequieto di Vincenzo, fu il contatto
con la società corrotta, per niente mediato dall’Istituzione scolastica. A
riguardo scriverà il Cultrera, noto biografo di Fra Giuseppe: “Poiché da essa
[la scuola] non è solo bandita la religione, unica e vera fattrice di
educazione, ma sovente viene insultata e derisa”.
Del resto la classe
dirigente locale non era interessata all’istruzione obbligatoria ne alla
costruzione di scuole, in quanto temeva un popolo istruito che avrebbe preso
coscienza della propria misera condizione.
Il colpo di grazia alle
speranze della famiglia di riportare il giovane sul cammino della maturità e
dell’ assennatezza, fu inferto dalla prematura e improvvisa morte della madre,
nell’aprile del 1877.
Questo triste evento,
segna ancora di più il carattere del già irrequieto Vincenzino, che trova sfogo
in una serie copiosa di monellerie. In famiglia tutti lo tenevano d’occhio, sia
l’impegnatissimo padre Nicolò, sia i parenti tutti, ma egli sapeva scaltramente
eludere la vigilanza e per quanto si stesse a sorvegliarlo, raramente si
riusciva a coglierlo in flagrante.
A Riguardo scrive ancora
il Cultrera: “ Una volta fu visto saltare dalla ringhiera della terrazza di
casa, e, poggiando i piedi sulle grate sporgenti delle camere sottostanti
scendere in giardino, e poi con nuovo ardimento risalire, appoggiandosi
all’inferriate delle finestre. Talvolta i suoi giochi erano più pericolosi.
Arrampicandosi sulle persiane dei balconi, già ben disposte, saliva su piano
piano, come fossero una scala finchè arrivava sul tetto di casa. E qui il
rischio era evidente, perché, se si fosse spezzata qualche stecca, precipitando
sull’inferriata sottostante, si sarebbe addirittura tagliato in due. Un giorno
prende una scala a pioli, l’osserva e pensa come potersene servire. Salirvi
sopra, poggiandola semplicemente alle pareti era cosa usuale, egli invece voleva
esercitarsi nello straordinario e nell’ardimentoso. Pensa di trasportarla sulla
terrazza e la poggia al muro ed invece di salirvi regolarmente dalla parte
anteriore, vi si arrampica dalla posteriore, e tutto lieto di aver trovato
anche là di esercitare il suo ardimento e l’ingegno, sale frettoloso, facendola
traballare continuamente; ma essendo il pavimento di mattoni lisci, quand’egli
era già in cima, la scala scivolò, ed egli sbatte sul suolo, rimanendo
malconcio e insanguinato. A questa scena dolorosa aveva assistito la sorella
Concettina, alla quale, appena caduto, non potendo parlare per lo stordimento,
aveva fatto segno di stare zitta e non chiamare nessuno, ma siccome la bambina
corse dai parenti, che insieme con le cure non gli risparmiarono i rimbrotti,
egli, adirato, le disse: “Non dubitare, morrai inforcata!”. Ma i pericoli
sembravano fatti per eccitare maggiormente la sua temerità.
Da queste monellerie che
rientrano nella sfera della fanciullezza, Vincenzo passerà a quelle della
gioventù.
Cresceva in lui una
smisurata passione per la ginnastica che a nulla avrebbe nociuto se non
l’avesse distolto ulteriormente dagli studi. Trascorreva poco tempo in
famiglia, e quando era presente si irritava facilmente con tutti, e maltrattava
i fratelli, le sorelle e la matrigna.
Sui compagni pretendeva
di imporsi, anche a costo di “venire alle mani”, a tutti voleva far sentire la
sua superiorità, anche quando era dalla parte del torto. Era insomma uno di
quei caratteri irrequieti che raramente danno pace, a chi li circonda.
Anche a scuola, molto
svogliato, era appagato quando riusciva a far scoppiare disordini, i compagni e
i maestri erano davvero stanchi di lui, per questo fu cacciato una prima volta
dall’Isituto Randazzo.
A poco o a nulla valsero
i tentativi del padre a farlo rinsavire e, nonostante le punizioni da lui
inferte erano davvero esemplari, Vincenzo le accettava con rassegnazione e
senza mai mancare di rispetto al padre, ma subito dopo ritornava alla stessa
condotta.
Dopo essere stato
riammesso per una seconda volta all’Istituto Randazzo, a causa della cattiva
condotta viene, nuovamente e definitivamente, espulso.
Ma il padre non si
arrende ma si convince ancora di più che l’unico rimedio efficace è
l’educazione religiosa. Pensò allora di mettere il figlio nelle mani del
sacerdote Giuseppe Colavincenzo, la cui fama di severità era ben nota, e per
tale motivo il giovane Vincenzo fu iscritto al convitto S. Rocco, di cui il
Colavincenzo era direttore.
Al convitto S. Rocco
Vincenzo a causa della sua fama, che non gli faceva di certo onore, venne
isolato da tutti, compagni ed educatori. E questo naturalmente non l’aiuto a
cambiare la sua condotta, ma a peggiorarla.
Il direttore lo
sorvegliava e spesso lo sottoponeva a castighi, che il giovane accettava con la
rassegnazione di sempre. Il padre Colavincenzo, pensò che il metodo migliore da
adottare era quello di isolarlo. Mentre per tutti aveva parole dolci, nei
confronti di Vincenzo si dimostrava austero e indifferente, lo stesso
Colavincezo affermerà: “Io lo trattavo sempre con serietà e qualche volta con
durezza perché per indole restio all’adempimento dei suoi doveri, e questo nel
primo anno”.
Fu quella solitudine che
iniziò a piegare l’animo ribelle del giovane.
La Provvidenza si servì
di un episodio alquanto singolare per dare inizio ad una nuova e più ricca fase
della vita di Vincenzo.
Accadde che in seguito
ad una esposizione di quadri realizzati dai convittori, il quadro del
convittore Antonio Piraino, raffigurante un volto di Cristo venne trovato
sfregiato dalla lama di un coltello. La cosa destò grande scalpore e rammarico.
Tutti i sospetti caddero sui più scapestrati, ma in modo particolare su chi tra
di loro primeggiava: il nostro Vincenzino.
Ad alimentare i sospetti
su di lui, contribuì il fatto che egli non si recò a vedere il disegno
sfregiato.
E se ufficialmente
nessuno lo accusò, alle spalle crebbero le voci che lo volevano a tutti i costi
colpevole. Finchè un giorno uno dei convittori ebbe l’ardire di rinfacciargli
pubblicamente il misfatto. Vincenzo che di certo non sarebbe rimasto inerte a
tale accusa, rispose con un pugno contro l’accusatore. Ma presto dentro di se
sentì il peso dell’insano gesto che aveva compiuto, chiese perdono
all’accusatore. Scrisse poi una lettera affettuosissima all’autore del disegno,
affermando che di certo non era stato lui a rovinare il quadro.
Questo è l’inizio
dell’amicizia profonda che nascerà tra i due, che il Piraino ricorderà con
queste parole: “Tanta verità traspariva da quello scritto che non esitai un
momento a crederlo. Quando venne a me, terminato lo studio, e con le lacrime
agli occhi mi chiese se avessi potuto accettarlo come amico, io non potei fare
a meno di abbracciarlo, e quel dì segnò il principio della nostra amicizia che
io mai ebbi l’uguale”.
La fine di quella
solitudine, il calore di quella amicizia, schiude il cuore di Vincenzo, che per
troppo tempo ormai era rimasto privo di amore.
Ora sentirsi amato,
corrisposto da un amico lo sollevò moralmente, e lo spinse sulla via del
cambiamento: Vincenzo passò dall’apatia all’entusiasmo.
Fino a questo momento,
l’amicizia tra i due non si basava su fondamenta religiose, delle quali il caro
Vincenzo nonostante l’educazione religiosa impartitagli dal Padre, era
fortemente carente. Lo stesso Antonio riferirà: “Fino ad allora nel suo animo
non si affacciava alcuna preoccupazione delle cose di Dio, ma aveva un fine
puramente umano. I nostri discorsi in collegio sulle prime erano di materie
scientifiche, essendo egli appassionato per la meccanica”. Era nota la
negligenza di Vincenzo nelle cose riguardanti la fede e Dio, e del fatto che
egli non nutrisse molte simpatie nei confronti dei sacerdoti. Ma non poteva
esimersi in virtù del regolamento alle varie azioni liturgiche che si
celebravano nel collegio.
Così come una goccia a
lungo andare perfora la roccia su cui cade, allo stesso modo la parola di Dio
faceva breccia nel cuore e nell’animo di Vincenzo, il quale incominciava a
dimostrare sempre più interesse per tutto ciò che riguardava Dio e la religione.
Correva l’anno 1880, e
Vincenzo iniziava il terzo anno nel convitto S. Rocco aveva ormai sedici anni.
Era il mese di maggio e
scrisse al padre: “Il diciotto maggio 1880, commisi un peccato di lussuria per
il quale fui assalito da un dolore di testa, da una mollezza e da una
malinconia.”, “ In quei dolorosi momenti, cercai conforto, ma invano, poiché il
rimorso della coscienza per la cattiva vita passata mi fece accrescere la
malinconia”, “Iddio vedendomi in quel misero stato, ed avendo compassione di
me, illuminò la mia debole mente, e mi fece comprendere che solo nella
religione può trovarsi conforto e diletto e non nelle stolte passioni, nelle
vanità del mondo”.
Fu da quel giorno che
Vincenzo iniziò la sua vera conversione.
Si abbandonò da subito
ad intensi e pesanti esercizi di penitenza, spesso rinunciava al cibo e al
sonno, infatti non era raro che passasse la notte in preghiera, stando molto
attento a non essere notato, per evitare che potesse apparire singolare agli
occhi dei convittori. Tra le varie penitenze, soleva mettere gli sportelli di
un armadio o una tavola da disegno sotto le coperte e vi si distendeva come su
di una croce. E quando i professori gli ricordavano che prima di tutto veniva
lo studio il quale era anche preghiera, lui rispondeva che in matematica
cambiando l’ordine degli addendi il risultato rimaneva invariato e quindi se
studiare è come pregare, a sua volta pregare è come studiare, e quindi non si
sarebbe mai stancato di pregare e fare penitenza, sempre sotto lo stretto controllo
e la più totale obbedienza al direttore spirituale.
E nonostante le
penitenze a cui si sottoponeva lo esponevano alla derisione di alcuni compagni,
egli non si perdeva d’animo e con tenacia si sforzava di parlare a tutti della
bontà di Dio, della vanità del mondo, della brevità della vita, dell’importanza
del pentimento.
Erano molti i compagni e
i docenti che lo guardavano ormai con grande ammirazione, e lo stile di vita
che conduceva gli valse il titolo, quasi profetico, di: “Il cappuccino”.
Esauriti gli studi al
convitto S. Rocco, Vincenzo trascorse un periodo in casa per approdare poi al
seminario arcivescovile di Palermo.
L’ingresso del nostro
Vincenzo presso il seminario, non fu senza ostacoli, riportiamo parte della
lettera che scrive al padre, per ottenere il permesso tanto agognato: “O
padre,o padre mio,vengo a parlare con la presente […] della salvazione
dell’anima mia. […] Ora voglio palesarle la causa della mia conversione. Lei
ben si rammenta che prima di entrare in collegio ero molto avverso ai doveri
religiosi; ebbene, entrato quivi, rimasi con i medesimi stolti principi. Però
volere o non volere ero costretto ad ascoltare la messa, a confessarmi, a farmi
la comunione. […] Quindi a poco a poco mi andavo assuefacendo a quella maniera di
vita, che del resto non mi riusciva tanto incomoda. Le continue e sante
prediche del direttore, senza accorgermene facevano breccia nel mio cuore, e mi
istillavano dei sentimenti giusti e santi. Quindi quell’avversità e quel
disprezzo che avevo contro la religione e i suoi ministri, a poco a poco si
andava cambiando in amore. […] Quindi lei sarebbe stolto e crudele se osasse
opporsi alla mia vocazione. […] Dunque per conchiudere le ripeto, per una
seconda e ultima volta, non mi neghi questa grazia, poiché ciò potrebbe essere
causa della dannazione dell’anima mia”.
Quando finalmente
otterrà il tanto anelato permesso, Vincenzo penserà di aver ricevuto la grazia
più grande, per la quale non si sarebbe mai stancato di ringraziare il Signore.
Era il giorno di Pentecoste,
il cinque giugno 1881 quando entrò in seminario, la sua fama l’aveva preceduto,
e tutti i seminaristi lo aspettavano trepidanti di curiosità. Volevano
conoscere quel giovane convertito che già al S. Rocco aveva fatto molto parlare
di sé.
Il giovane Vincenzo, per
questi motivi aveva sempre l’attenzione di tutti i compagni i quali stavano ben
accorti a non perderlo d’occhio, nelle varie ore ed attività della giornata.
La vita del seminario
con i suoi orari ben scanditi e ben organizzati, lo soddisfaceva pienamente,
pur rimanendo sempre gioviale e allegro con tutti, non rinunciava ai suoi duri
esercizi di penitenza, rinvigoriti dallo smisurato amore per l’Eucaristia.
Coglie tutte le occasioni per stare dinanzi al tabernacolo, per trattenersi a lungo
e solo in chiesa, per abbandonarsi a dolci dialoghi con il Padre Celeste.
Vincenzo capisce che il centro della sua vita è l’Eucaristia, e attorno ad essa
deve ruotare tutta la sua giornata.
Un giorno scopre
casualmente nello stanzino della fisica una finestra nascosta comunicante con
la chiesa, dalla quale si poteva scorgere il Tabernacolo del SS. Sacramento, e
grazie al suo ingegno escogita un sistema di specchi che gli permette di
riflettere l’immagine del Tabernacolo nella stanzetta. In questo modo, avendo
avuto il permesso dei superiori, poteva adorare il SS. Sacramento anche nelle
ore notturne senza essere disturbato e fuori da ogni sguardo indiscreto.
Il tempo passava in
seminario, più di tre anni erano trascorsi dal suo ingresso, e Vincenzo aveva
compiuto vent’anni, durante questo tempo si era fatta strada dentro di lui in
maniera sempre più forte un desiderio di deserto e di vita eremitica, per
questo motivo chiese e ottenne il permesso di fare una esperienza estiva, di
solitudine e raccoglimento nel convento allora abbandonato di Baida.
Durante questo periodo,
in cui vive nell’assoluta solitudine, austerità, e profonda preghiera, in
Vincenzo si fa sempre più chiara l’idea di voler abbracciare un ordine
religioso.
Al ritorno da Baida
entrando nell’ufficio del suo direttore spirituale, incontra un giovane frate
cappuccino, che aveva da poco finito il noviziato nel paese di Sortino,
Vincenzo non ebbe dubbi: era quello l’ordine che voleva abbracciare.
Dopo un lungo braccio di
ferro col padre, ottiene anche questa volta il permesso, e dopo un periodo
passato a casa, nel quale si dedicò anima e corpo al servizio degli ultimi e
dei sofferenti, accompagnato dal fratello Silvestro giunge alla porta del
convento di Sortino, era il gennaio del 1885.
Giunti a Sortino vennero
accolti da Padre Eugenio Scamporlino, una figura molto nota in quei tempi, che
godeva di una grande stima in tutta la Sicilia.
Il Padre Eugenio dal
sottile fiuto, interrogò il giovane, sulle motivazione che lo avevano spinto ad
abbracciare questo ordine religioso. E Vincenzo rispose subito e senza esitare:
“Per salvare l’anima”. E dopo averlo messo in guardia sui rigori che la sua
scelta comportava si sentì rispondere con fermezza: “Questo è quello che io
cerco”.
Il giorno 14 febbraio
1885 fu il giorno della sua vestizione, prese il nome di Fra Giuseppe Maria da
Palermo. Quel giorno scrisse al padre: “In quel momento provai una gioia più
grande di quanto ne provano gli uomini quando indossano i loro abiti più
eleganti, giacchè il mio corpo rivestito di una povera tunica, vesto l’anima di
un abito elegantissimo qual si è appunto quello della virtù delle povertà”.
Inizia da subito una
vita molto umile e austera. Sceglieva sempre gli incarichi più umili, che
svolgeva con gioia e dedizione. Mortificava gli occhi riducendo all’essenziale
il campo visivo, pane poco o niente affatto, sempre ubbidiente non solo ai
comandi ma anche ai consigli. Portava il cilicio sulla nuda carne, provocandone
il sanguinamento. La notte spesso non dormiva perché intento a pregare. Durante
le torride giornate estive, quando era concesso anche il vino egli non beveva,
preferiva un solo abito, mentre ne erano concessi due e un solo paio di
sandali.
E’ vero, è probabile che
oggi tutte queste penitenze e mortificazione possano apparire ai nostri occhi
esagerate e anacronistiche, incomprensibili. Dobbiamo innanzitutto
contestualizzarle, di fatto è solo dopo il Concilio Vaticano II che c’è stato
un recupero delle realtà terrene, riconoscendo una dignità maggiore anche al corpo.
Tenendo presente questo, non dobbiamo neanche demonizzarle tali penitenze e
mortificazioni, in quanto Fra Giuseppe aveva ben compreso, lui che l’aveva
sperimentata la dissolutezza, l’importanza di “tenere a freno” quel fratello
corpo che con facilità poteva riportarlo alle antiche e stolte passioni. E
soprattutto il grande amore per Cristo, lui che per noi ha donato la sua vita
fino al sacrifico più grande sulla croce, meritava un po’ di quella sofferenza,
e vi assicuro che l’amore per Cristo rende dolci tutte le penitenze e
mortificazioni.
Fra Giuseppe in convento
era un po’ un modello per tutti. Un teste afferma: “Fra Giuseppe Maria era la
meraviglia della fraternità, l’esempio per tutti”. Padre Eugenio conferma: “Non
appena fra Giuseppe Maria da Palermo indossò l’abito religioso da novizio
cappuccino, diede prove innegabili, chiare ed evidenti di tutte le virtù”.
Padre Innocenzo da Sortino riconferma: “Nel tempo del noviziato il Servo di Dio
esercitò tutte le virtù cristiane e religiose con la massima perfezione”.
Le continue penitenze e
mortificazioni ben presto lo costringeranno a letto. Nel 1885 infatti Fra
Giuseppe avverte i primi sintomi del male che lo porterà alla tomba: tosse,
febbre, dolori acuti al cuore. Dopo una prima ed apparente guarigione alla fine
di dicembre venne colpito da un nuovo attacco di febbre altissima, al quale non
potè resistere.
Nella notte del 31
dicembre, Padre Eugenio trovandolo peggiorato nel male, ma cosciente di mente
gli disse: “ Fra Giuseppe Maria, lo Sposo Celeste vi chiama alle nozze eterne;
non sentite la sua voce? Adesso vuol darvi nel SS. Viatico il suo ultimo
amplesso per trasportarvi in Paradiso”.
Dopo essersi comunicato
e dopo aver emesso la professione religiosa, con la serenità di sempre andava
incontro a sorella morte, della quale non aveva nulla da temere.
“Mantenne costante il
volto sereno e quasi gioioso, segno di intima comunione mistica con Dio”,
testimonia Fra Giuseppe da Modica suo compagno.
Fu cosi che Fra Giuseppe
Maria si spense il venerdì, primo gennaio 1886 alle ore 0:30, con la corona del
rosario in mano e assorto in preghiera.
Alla notizia della
morte, numerose persone accorsero in convento, per rendere omaggio a
quell’umile frate che tanto odorava di santità.
Il corpo di Fra
Giuseppe, vista l’affluenza ininterrotta di gente, rimase esposto nella chiesa
del convento per due giorni, molte persone cercavano di ritagliare pezzetti di
abito per averne una reliquia.
Il volto del giovane
frate era roseo, e nessuno sentiva cattivi odori o segni decomposizione.
I funerali vennero
celebrati giorno due gennaio, ai quali accorsero numerosi preti, religiosi e
numerose persone, anche dai paesi vicini.
La santità di Fra
Giuseppe era riuscita a superare le mura di una cella convenutale, come un
fiore profumato che se anche posto in un luogo chiuso, riesce ad emanare i suoi
meravigliosi profumi.
Il trasporto al cimitero
avvenne la domenica, giorno tre. Quello stesso pomeriggio Padre Eugenio si reca
nuovamente al cimitero insieme al custode fra Francesco da Sortino e al
barbiere il signor Francesco Blancato.
Dopo aver recitato il De
profundis, dopo essersi accostato al feretro P. Egenio intima al frate orami
morto da tre giorni, di essere obbediente anche dopo la morte, e così dicendo
presogli il braccio al taglio di una vena sgorgo sangue caldo e rosso, che
cadde su pavimento.
Altro fenomeno
straordinario era la flessibilità delle ossa almeno fino a otto giorni dalla
morte, e il profumo di zagara che emanava il suo corpo.
Dal quel momento i
fedeli non hanno cessato di invocarlo: sono numerose le grazie ottenute per
l’intercessione del nostro servo di Dio Fra Giuseppe Maria da Palermo.
Oggi la devozione verso
questo Servo di Dio è ancora presente, anche se molto si deve operare per far
conoscere questa figura ai più lontani.
Si conservano nella
chiesa del convento dei frati Cappuccini di Sortino le spoglie mortali di Fra
Giuseppe, custodite in un sepolcro monumentale. All’interno del convento è
presente, trasformata in piccola cappellina, la celletta dove lui visse,
insieme ad una teca con un alcuni effetti personali. Inoltre a maggio si suole
commemorare il Servo di Dio con un triduo di preparazione e una solenne
concelebrazione che generalmente avviene la seconda domenica dello stesso mese.
Questo umile e piccolo
frate oggi parla ai nostri cuori, ci insegna che la santità è una vetta alla
quale tutti possiamo e dobbiamo tendere, egli stesso scriveva nel suo diario:
“Io sento in me un ardente desiderio di farmi santo: io ho fame e sete della
giustizia […] io sento in me un non so che di presentimento che abbia a farmi
finalmente santo; […] o mio Dio, ho un ardente desiderio di dedicami tutto a
voi, senza alcuna riserva”.
Fra Giuseppe ha avuto
solo coraggio, il coraggio di cambiare, il coraggio di andare controcorrente,
il coraggio di farsi ultimo, anche se questo costa fatica e ci rende più deboli
agli occhi degli uomini.
Anche noi se apriamo
davvero il nostro cuore alla voce del Padre, se ci lasciamo lavorare da lui
come creta nelle mani del vasaio, solo allora potremmo far parte insieme a Fra
Giuseppe di quel giardino profumato, lassù in cima alla vetta della santità.
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