SAN GIOVANNI DELLA CROCE
Nell’immaginario
collettivo la grandezza di un uomo viene misurata e ammirata non solo per come
ha saputo vivere la propria avventura umana, ma anche per il modo in cui ha
affrontato le ore del supremo transito dagli affanni della vita mortale
“all’altra riva” quella di Dio.
Il momento della propria
morte: quello delle scelte definitive, cioè della “crisi” finale, che fa paura
a tutti. Giovanni della Croce sul letto di morte, ai suoi confratelli che gli
leggevano le preghiere dei moribondi, chiese qualcosa di più “allegro”: domandò
espressamente qualche versetto del Cantico dei Cantici, un bellissimo e
travolgente poema d’amore dell’Antico Testamento (che lui ben conosceva). Non
andava forse incontro all’Amore?
Allora ci voleva qualcosa
di più appropriato. Dopo la lettura Giovanni finì il cammino terreno pregando
le parole “Nelle tue mani, Signore, affido, il mio spirito”. Cioè nelle mani di
Dio Amore, per il quale era vissuto, aveva lavorato e sofferto, per quel Dio
che lui aveva amato, predicato e cantato. Alcuni anni prima aveva scritto la
poesia “Rompi la tela ormai al dolce incontro”. Ecco che cosa era la morte per
lui: un “dolce incontro” con Dio Amore. Aveva 49 anni tutti spesi per Dio.
Numerosi sono i
riconoscimenti avuti dai posteri. Prima cosa, e non è poco, è un Santo. Ma non
solo: è Dottore della Chiesa (Dottore Mistico), cioè Maestro riconosciuto nelle
cose di Dio. È un grande maestro di spiritualità valido ancora oggi. Ha anche
il merito di essere stato un valido collaboratore di Teresa d’Avila (anch’essa
Santa e Dottore della Chiesa) nella Riforma Carmelitana. Ma non basta. Per le
sue poesie si è guadagnato un posto nella letteratura spagnola. È stato
riconosciuto come “il più santo dei poeti spagnoli, e il più poeta dei Santi”.
Giovanni nacque a
Fontiveros non lontano da Avila nel 1542 in una famiglia ricca di amore ma
povera di mezzi materiali. È interessante notare il perché di tutto questo. Il
padre, Gonzalo de Yepes, apparteneva ad una nobile e ricca famiglia di Toledo.
Nei suoi viaggi d’affari incontrò Caterina, una tessitrice, orfana, povera e
bella. Innamoratosi di lei, la sposò, per amore e contro la dura volontà dei
parenti, ricchi, che per questo lo diseredarono. Gonzalo così diventò
poverissimo, tanto che è Caterina stessa ad accoglierlo nella sua casetta, e ad
insegnargli il mestiere di tessitore. Il loro matrimonio d’amore fu allietato
dalla nascita di tre figli.
L’amore tra loro era
grande, ma anche la povertà. Giovanni, il terzogenito, rimase presto orfano:
Caterina dopo aver ricevuto uno sdegnoso rifiuto di aiuto dai parenti del
marito, cercò lavoro a Medina del Campo, importante centro commerciale. Qui
Giovanni fece i suoi primi studi e nello stesso tempo accettò di fare dei
piccoli lavori: fu così apprendista sarto, falegname, intagliatore e pittore.
Fece anche l’infermiere, sempre amorevole con i malati: in questo modo si
pagava gli studi che contemporaneamente faceva nel collegio dei Gesuiti.
Terminati brillantemente questi, nel 1563 entrò nell’Ordine Carmelitano: era
ormai Fra Giovanni di San Mattia.
L’incontro con Teresa
Proprio per la sua
intelligenza e la serietà di vita, i superiori lo inviarono a Salamanca, nella
famosa Università. Qui Giovanni non solo crebbe nella conoscenza della filosofia
e teologia, ma intensificò anche la propria vita spirituale, fatta di
preghiera, di lunghe ore di contemplazione davanti al tabernacolo e di ascesi
pratica. Si sentiva portato alla vita contemplativa ed è per questo che stava
meditando di cambiare Ordine ed entrare tra i Certosini.
Ma poco prima di essere
ordinato sacerdote, ecco l’incontro provvidenziale con una affascinante monaca
carmelitana di nome Teresa di Gesù, di quasi trent’anni più di lui. Questa era
una donna dalla forte personalità arrivata ormai alla piena maturità
spirituale. Vi era giunta attraverso un lungo travaglio vocazionale e
spirituale e proprio in quegli anni stava lavorando con successo alla riforma
delle Carmelitane. In quel periodo stava anche pensando di estendere la riforma
al ramo maschile dell’Ordine. Questo era molto importante per Teresa, perché
gli uomini potevano legare la contemplazione del mistero di Dio alla missione.
Potevano lavorare cioè non solo alla propria santificazione nel chiuso del
convento ma anche per quella degli altri. Teresa espose a Giovanni il proprio
progetto di riforma e gli chiese nello stesso tempo di soprassedere alla
decisione di cambiare ordine. E questi accettò.
Nel 1568, Teresa
finalmente riuscì a fondare il primo convento maschile, a Duruelo, presso
Avila. Giovanni (che da questo momento si chiamerà Giovanni della Croce)
iniziava così una forma di vita religiosa, condividendo con Teresa l’ideale di
riforma della vita carmelitana. Anzi fu lei stessa a cucirgli il primo saio di
lana grezza. Nascevano così i Carmelitani Scalzi.
In prigione a pane e
acqua
Nel 1572, Teresa venne
nominata priora del grande convento di Avila (non riformato), con 130 monache,
alcune delle quali erano poco sante e molto turbolente. E volle accanto a sé
per la loro rieducazione spirituale proprio Giovanni della Croce: confessore e
direttore spirituale delle monache. I risultati spirituali furono brillanti
grazie all’opera congiunta dei due santi riformatori. Ma nello stesso tempo,
erano cresciuti anche i rancori e l’opposizione di alcuni carmelitani non
riformati. C’era chi con il diavolo, molto interessato al naufragio del
progetto, remava contro questa riforma. E ben presto si fecero sentire.
Duramente e dolorosamente. Per un tragico intreccio fatto di incomprensioni, di
giochi di potere, di dispute sulla giurisdizione religiosa, di ambizioni
personali mascherate da argomenti teologici e difficoltà di comunicazione
(lettere in ritardo).
Ma mentre Teresa (che
aveva protettori molto in alto, addirittura in Filippo II) non venne toccata,
la cattiveria umana si scatenò contro il povero Giovanni. Per ordine superiore,
sotto l’accusa di essere un frate ribelle e disobbediente, fu arrestato e
incarcerato in un convento a Toledo. Gli lasciarono in mano solo il breviario.
Fu maltrattato, umiliato e segregato in un’angusta prigione, con poca luce e
molto freddo. Nove mesi di prigione: a pane e acqua (e qualche sardina), con
una sola tonaca che gli marciva addosso, con il supplemento di sofferenza
(flagellazione) ogni venerdì nel refettorio davanti a tutti.
Divorato dalla fame e
dai pidocchi, consumato dalla febbre e dalla debolezza, dimenticato da tutti.
Ma non da Teresa (che protestò vigorosamente anche in alto, ma invano) e tanto
meno da Dio. Sì Dio non solo non lo aveva dimenticato, anzi era sempre stato
con lui, con la sua grazia. Giovanni sapeva che anche nella notte della
prigione Dio era nel suo cuore, presentissimo in ogni istante.
E il miracolo avvenne.
In una situazione che per molti versi e per molte persone poteva essere di
collasso psico fisico e di naufragio spirituale, Giovanni della Croce (possiamo
immaginare per un “input” dall’alto) compose, con materiale biblico, le più
calde e trascinanti poesie d’amore, ricche di sentimenti, di immagini e di simboli.
Vivendo in Dio e di Dio anche in quelle circostanze, egli attingeva così a Lui,
fonte perenne di ogni novità e creatività, “anche se attorno era notte”.
Maestro di vita
spirituale
Alla vigilia
dell’Assunta del 1578, fuggì coraggiosamente dal carcere, rischiando seriamente
la vita, qualora fosse stato preso.
Le sofferenze inaudite
di 9 mesi di carcere non furono vane. Infatti, due anni dopo, i Carmelitani
Scalzi ottennero il riconoscimento da Roma, che significava autonomia. Giovanni
della Croce era finalmente libero di espletare il suo ministero con tutte le
sue qualità di cui era dotato, influendo positivamente tutti: confratelli e
monache Carmelitane (e molti laici) che lo conobbero o che lo ebbero come
superiore o come confessore e direttore spirituale, negli anni seguenti fino
alla morte.
Fu inviato anche al sud
della Spagna, in Andalusia, dove il clima, la natura, l’assenza di contrasti e
il successo della riforma di Teresa di Gesù (e sua) gli diedero il tempo e
l’ispirazione per comporre la maggior parte delle opere di spiritualità, tanto
da farne uno dei grandi maestri nella Chiesa.
Tra i suoi scritti
ricordiamo, oltre il già citato Cantico Spirituale in poesia, la Salita al
Monte Carmelo e la Notte Oscura. Pur avendo una solida formazione filosofica e
teologica (il che lo aiutava certamente), ciò che Giovanni ha scritto non è
tanto il risultato di sistematiche ricerche in biblioteca quanto il frutto
della propria esperienza ascetica e spirituale.
Due tappe per crescere
È stato ed è un maestro
di mistica perché fu lui stesso, nelle vicende gioiose e tristi della sua vita,
un mistico. La fatica della salita del monte del Signore e la notte oscura
delle difficoltà spirituali in questa aspra ascesa Giovanni le conosceva per
esperienza. Ora, da essa arricchito e maturato, la proponeva agli altri, a noi.
Per Giovanni della Croce
l’uomo è essenzialmente un essere in cammino, in perenne ricerca: di Dio
naturalmente, essendo stato fatto da Lui e per Lui. Questo ritorno verso Dio
egli lo immagina come la salita di una montagna, il Monte Carmelo, che
rappresenta simbolicamente la vetta mistica, cioè Dio stesso nel suo amore e
nella sua gloria. Per arrivare alla meta che è l’unione d’amore trasformante
con Dio (o santità cristiana) l’uomo deve affrontare con coraggio e pazienza le
due fasi o tappe, della educazione dei sensi (notte dei sensi) e del
rinnovamento del proprio spirito (notte dello spirito) ambedue esperienze
misteriose e dolorose di spoliazione interiore.
Con la notte dei sensi
(attraverso un duro ed esigente impegno ascetico) l’anima si libera
dall’attaccamento disordinato catturante e spiritualmente paralizzante delle
cose sensibili, dal modo di giudicare e di scegliere basati sul proprio egoismo
e sul proprio interesse immediato, sull’utilitarismo quotidiano nei rapporti
interpersonali, sulle comodità di ogni genere e sull’abbondanza superba e
gaudente. L’uomo dei sensi e quello totalmente prigioniero di un’unica
prospettiva, quella terrena, difficilmente capirà le esigenze di Dio e del
Vangelo.
Con la notte dello
spirito invece ci si affranca dalle false certezze e dai falsi assoluti della
propria intelligenza, affidandosi così totalmente e liberamente a Dio,
attraverso l’esercizio delle virtù teologali, quali la fede e la speranza in
Cristo, e la carità verso Dio e il prossimo. Si tratta del passaggio doloroso e
lungo tanto che può durare tutta la vita dall’uomo “vecchio” all’uomo “nuovo”,
da quello “terreno” a quello “spirituale”, da quello mosso dall’egoismo (la
carne) a quello sospinto e motivato dallo Spirito, di cui parla San Paolo: un
morire per rinascere in Cristo.
Farsi nulla per Dio per
essere tutto in Lui
Giovanni della Croce
parla di rinunce, di lasciare tutto, di nulla (quali sono le cose rispetto a
Dio), di salita, di notte oscura, tutta una terminologia che caratterizza la
vita spirituale secondo lui come un lavoro (di auto correzione e autocontrollo
nelle proprie azioni e decisioni), un impegno serio, una fatica dura, una
ascesi costosa, graduale e continua... che non si può realizzare dall’oggi al
domani. Giovanni della Croce non comprende (e scoraggia) quelli che “scalpitano
tanto... che vorrebbero essere santi in un giorno”. Non è possibile. Allora
come oggi. Egli afferma che se l’anima vuole il Tutto (Dio), deve impegnarsi a
lasciare tutto e a voler essere niente:
“Per giungere dove non
sei, devi passare per dove non sei. Per giungere a possedere tutto, non volere
possedere niente. Per giungere ad essere tutto, non volere che essere niente”.
Naturalmente per
Giovanni la parola più importante in questo discorso spirituale non è rinuncia
ma amore. Per lui non si tratta tanto di lasciare o rinunciare a qualcosa ma di
amare Qualcuno. Egli invita a lasciare amori piccoli per un amore più grande
anzi per l’Amore Totale che è Dio Trinità. Amore è la parola decisiva: amore di
Dio per noi, amore della creatura per Dio, visto come risposta alla nostra
ricerca di amore, fino a consumarsi nel Dio Amore (unione sponsale o mistica).
E Giovanni della Croce si è consumato nell’amore per Dio Amore fino alla fine
che arrivò il 14 dicembre 1591 in Andalusia, a Ubeda.
Ad una monaca che gli
aveva scritto accennando alle difficoltà che egli aveva sofferto rispose:
“Non pensi ad altro se
non che tutto è disposto da Dio. E dove non c’è amore, metta amore e ne
riceverà amore”.
Un consiglio decisamente
valido ancora oggi, per tutti.
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