SAN GIUSEPPE MOSCATI
Giuseppe
Moscati fu uno dei medici più conosciuti della Napoli d’inizio Novecento. Per
la sua capacità di coniugare scienza e fede, è riconosciuto come Santo dalla
Chiesa cattolica a partire dal 1987. Ancora oggi riceve visite da persone di
ogni parte del mondo, non solo per le infermità fisiche, ma anche per i mali
che colpiscono l’animo degli uomini del nostro tempo.
Contrariamente
a quanto si possa credere, non nacque a Napoli, ma a Benevento, il 25 luglio
1890, da Francesco Moscati, magistrato, e Rosa de Luca; fu il settimo dei loro
nove figli. Si trasferì nel capoluogo campano quando aveva quattro anni, dopo
una breva permanenza ad Ancona, per via del lavoro del padre.
L’8
dicembre 1888 ricevette la Prima Comunione da monsignor Enrico Marano nella
chiesa delle Ancelle del Sacro Cuore, fondate da santa Caterina Volpicelli.
Studiò presso il liceo «Vittorio Emanuele»; dopo il conseguimento del diploma
di maturità classica, nel 1897, iniziò gli studi universitari presso la facoltà
di Medicina. Il motivo di quella scelta, di rottura rispetto alla tradizione
familiare (oltre al padre, anche suo nonno paterno e due fratelli avevano
studiato Giurisprudenza), è forse dovuto al fatto che, dalla finestra della
nuova abitazione, poteva osservare l’Ospedale degli Incurabili, che suo padre
gl’indicava suggerendogli sentimenti di pietà per i pazienti ricoverati.
Il
primo ammalato con cui ebbe a che fare suo fratello Alberto, il quale, caduto
da cavallo, subì un trauma cranico, che gli produsse una forma di epilessia.
Quest’evento persuase il giovane da una parte della brevità della vita umana,
dall’altra di doversi dedicare interamente alla professione medica. Nel
frattempo, il 2 marzo 1898, fu cresimato da monsignor Pasquale de Siena,
vescovo ausiliare del cardinal Sanfelice, arcivescovo di Napoli.
All’epoca
la facoltà di Medicina, insieme a quella di Filosofia, era quella più
influenzata dalle dottrine del materialismo. Tuttavia Giuseppe se ne tenne a
distanza, concentrandosi sulla preparazione degli esami. Concluse gli studi il
4 agosto 1903 con una tesi sull’urogenesi epatica, laureandosi col massimo dei
voti.
Nemmeno
tre anni dopo, iniziò a emergere la sua capacità di agire tempestivamente: dopo
aver assistito alle prime fasi dell’eruzione del Vesuvio dell’8 aprile 1906, si
precipitò a Torre del Greco, dove gli Ospedali Riuniti di Napoli avevano una
sede distaccata, e trasmise l’ordine di sgombero, caricando personalmente i
pazienti, molti dei quali paralitici, sugli automezzi che li avrebbero condotti
in salvo. Appena l’ultimo paziente fu sistemato, il tetto dell’ospedale crollò.
Per sé il giovane medico non volle encomi, ringraziando invece il resto del
personale, a suo dire più meritevole. Nell’epidemia di colera del 1911 fu
invece incaricato di effettuare ricerche sull’origine dell’epidemia: i suoi
consigli su come contenerla contribuirono a limitarne i danni.
Tra
gli elogi che arrivavano da parte del mondo accademico, gli giunse anche la
vittoria in un importante concorso, che lo inserì a pieno titolo nell’attività
dell’Ospedale degli Incurabili. Portava avanti in parallelo l’esercizio della
professione e la libera docenza universitaria. Furono numerose anche le sue
pubblicazioni su riviste di settore e le partecipazioni a congressi medici internazionali.
Un
insegnamento di rilievo gli veniva dalle autopsie, nelle quali era tanto abile
che, nel 1925, accettò di dirigere l’Istituto di anatomia patologica. Un giorno
convocò i suoi assistenti nella sala delle autopsie per mostrare loro non un
caso clinico, ma la vittoria della vita sulla morte: «Ero mors tua, o mors»,
come diceva un cartello sovrastato da un crocifisso, fatto sistemare da lui su
una delle pareti. In altri casi, mentre esaminava i cadaveri, fu udito
affermare che la morte aveva qualcosa d’istruttivo.
Non
che fosse un personaggio cupo, tutt’altro. I suoi parenti e colleghi
testimoniarono che dalla sua persona promanava un fascino distinto, che lo
rendeva di buona compagnia. Era anche molto attento alla natura, all’arte e
alla storia antica, come si evince dal racconto di un viaggio in Sicilia. Non si concedeva altri svaghi come andare a
teatro o al cinema e non aveva neppure un’automobile sua, preferendo spostarsi
a piedi o coi mezzi pubblici, anche sulla lunga distanza.
Erano
tutti modi con cui si esercitava a conservarsi sobrio e povero, come gli
ammalati che prediligeva visitare. Numerosi sono i racconti di pazienti che si
videro recapitare indietro la somma con cui l’avevano pagato, anche se ne aveva
diritto essendo venuto da lontano. I poveri, per lui, erano «le figure di Gesù
Cristo, anime immortali, divine, per le quali urge il precetto evangelico di
amarle come noi stessi». Viene quasi alla mente l’espressione che papa
Francesco ha più volte pronunciato, definendoli “carne di Cristo”, quindi
scendendo nel concreto della corporeità e del dolore. Il dottor Moscati
insegnava a trattare questa manifestazione «non come un guizzo o una
contrazione muscolare, ma come il grido di un’anima, a cui un altro fratello,
il medico, accorre con l’ardenza dell’amore, la carità».
E
proprio la carità era, secondo lui, la vera forza capace di cambiare il mondo,
come scrisse nel 1922 al dottor Antonio Guerricchio, un tempo suo assistente:
«Non la scienza, ma la carità ha trasformato il mondo, in alcuni periodi; e
solo pochissimi uomini son passati alla storia per la scienza; ma tutti
potranno rimanere imperituri, simbolo dell'eternità della vita, in cui la morte
non è che una tappa, una metamorfosi per un più alto ascenso, se si
dedicheranno al bene».
Nel
dottor Moscati la scienza era compenetrata da un’acuta capacità diagnostica,
tanto più sorprendente se si pensa che, alla sua epoca, erano sicuramente noti
i raggi X, ma non le tecniche con le quali oggi s’indaga l’interno degli
organi, come la TAC o altre. I sintomi che altri riconducevano a malattie di un
certo tipo erano da lui riferiti a cause di natura diversa, per le quali
disponeva terapie il più delle volte benefiche. Oltre ai suoi prediletti, ebbe
due pazienti celebri: il tenore Enrico Caruso, a cui rivelò – dopo essere stato
tardivamente consultato – la vera natura del male che lo condusse alla morte, e
il fondatore del santuario della Madonna del Rosario di Pompei, il Beato
Bartolo Longo.
Tutte
queste doti traevano la propria sorgente dall’Eucaristia, che riceveva
quotidianamente, in particolare nella chiesa del Gesù Nuovo, non molto lontana
dalla sua abitazione, in via Cisterna dell’Olio 10, dove viveva con la sorella
Anna, detta Nina. Grande era anche la sua devozione alla Vergine Maria, sul cui
esempio decise, nel pieno della maturità, di rimanere celibe, ma senza farsi
religioso come san Riccardo Pampuri né diventare sacerdote, scelta che invece
compì, a quarantacinque anni, il Servo di Dio Eustachio Montemurro. Qualcuno ha
sospettato che fosse, per usare un eufemismo, incapace alla riproduzione o che
avesse qualche tratto di misoginia. In realtà non si riteneva incline al
matrimonio, che invece esortava ad abbracciare ai suoi giovani allievi:
inoltre, se avesse preso moglie, non sarebbe più stato libero di visitare i
suoi poveri.
La
morte lo colse per infarto al culmine di una giornata come tante, verso le 15
del 12 aprile 1927. La poltrona dove si sedette, poco dopo aver applicato a se
stesso la capacità diagnostica che aveva salvato tanti, è conservata ancora
oggi, come tanti altri suoi oggetti, nella chiesa del Gesù Nuovo, grazie
all’intervento della sorella Nina.
I
padri Gesuiti, a cui è tuttora affidato il Gesù Nuovo, non raccolsero solo la
sua eredità materiale, ma si fecero custodi del suo ricordo e seguirono
l’aumento della sua fama di santità. La sua causa di beatificazione si è quindi
svolta nella diocesi di Napoli a partire dal 1931. Dichiarato Venerabile il 10
maggio 1973, è stato beatificato a Roma dal Beato Paolo VI il 16 novembre 1975.
A
seguito del riconoscimento di un ulteriore miracolo per sua intercessione, dopo
i due necessari per farlo Beato secondo la legislazione dell’epoca, è stato
canonizzato da san Giovanni Paolo II il 25 ottobre 1987. In quel periodo si
stava svolgendo la VII Assemblea generale del Sinodo dei Vescovi su «Vocazione
e missione dei laici nella Chiesa e nel mondo a vent’anni dal Concilio Vaticano
II»: non poteva esserci occasione migliore per indicarlo alla venerazione dei
cattolici di tutto il mondo.
Il
16 novembre del 1930 i suoi resti vennero trasferiti dalla cappella dei
Pellegrini nel cimitero di Poggioreale alla chiesa del Gesù Nuovo e collocati
nel lato destro della cappella di san Francesco Saverio. Sempre il 16 novembre,
ma del 1977, quindi due anni dopo la beatificazione, vennero posti sotto
l’altare della cappella della Visitazione, a seguito della ricognizione
canonica.
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