PADRE PIETRO TURATI
"Fino
dal 1933 Francesco parlava della sua vocazione alla Famiglia Serafica del
Poverello d’Assisi. E’ buono, ubbidiente, umile, pieno d’amore del
Signore." Chi scriveva così era il parroco di Virle Treponti, nella
lettera con la quale chiedeva al Superiore del convento francescano di Saiano,
di accogliere tra i frati il suo "figliolo, del Circolo di Azione
Cattolica", Francesco Turati.
Era
nato a Nuvolera patria di un grande francescano: mons. Venanzio Filippini
vescovo di Mogadiscio in Somalia. Monsignor Filippini aveva iniziato la vita
missionaria in Libia fin dal 1913 assieme al vescovo di Tripoli di quel tempo,
mons. Lodovico Antonelli, francescano anche lui e per giunta nato a Mazzano ad
un tiro di schioppo da Nuvolera. Insomma, in questi paesi, questi personaggi
erano di famiglia. Personaggi ammirati che vivevano in regioni lontane e
inesplorate, e che ogni giorno dovevano necessariamente affrontare avventure
pericolose per diffondere il Vangelo. Quando poi ogni tanto ritornavano in
paese a ristorare le forze, i loro racconti facevano il giro delle case e,
nelle omelie, i parroci raccomandavano ai loro fedeli di essere generosi con
questi missionari e con le loro Missioni. Insomma per il giovane Turati la
vocazione missionaria non era soltanto qualcosa che sentiva dentro di sé, ma
era anche la inevitabile realizzazione di alcuni modelli di vita che aveva
sotto gli occhi. Per questo aveva deciso di diventare francescano con una
prorompente passione missionaria.
Il
giorno dell’Assunta del 1940 il giovane Francesco indossò l’abito dei Frati
Minori nel convento di Rezzato. Vestire l’abito dei Frati minori significa
abbandonare gli usi e i costumi di prima. Una conversione che è stupendamente
simboleggiata dal cambiamento di nome. Così Francesco assunse il nome di
Pietro, perché tra quelle pietre il Signore gli aveva costruito la vocazione
che niente e nessuno gli avrebbero mai strappato. Nelle note del Padre Maestro,
oltre allo spiccato spirito di orazione e di devozione, sono costanti alcune
valutazioni importanti: carattere fermo, docile verso i superiori, caritatevole
verso i compagni, diligente nel lavoro.
Il
suo desiderio di diventare missionario viene soddisfatto e il 21 agosto 1948,
circa due mesi dopo la sua ordinazione sacerdotale, sbarca a Mogadiscio dove
viene accolto dal vescovo Filippini che gli aprì le braccia e gli spiegò il
campo di lavoro che lo attendeva: niente lebbrosi da curare, niente orfani da
crescere, niente infedeli da convertire. Il novello missionario sarebbe
diventato suo segretario e, dietro alla scrivania di un ufficio, avrebbe
espletato tutte le pratiche della Missione che allora era in forte ripresa
organizzativa. Non esattamente quello che aveva sognato, ma resistette. Era
portato all’azione e solo il grande spirito di obbedienza lo potevano
costringere dietro ad una scrivania.
Ma
non per molto, perchè dal marzo 1951, lasciato l’incarico di segretario del
vescovo, assunse via via la responsabilità di diverse stazioni missionarie.
Potè quindi dedicarsi in particolare all’assistenza degli orfani, dei bambini
abbandonati e dei poveri nonché all’insegnamento nelle scuole.
Le
vicende politiche successive al 1 luglio 1960, data dell’indipendenza della
Somalia, avevano preso una piega sfavorevole all’opera della missione che
culmina con la nazionalizzazione di tutte le opere della missione e quindi dal
giugno 1989 padre Turati si ritira definitivamente a Gelib e si mette a
servizio del locale lebbrosario e dei bambini del brefotrofio governativo già
appartenente alla Missione.
L’ultima
volta lo videro il 28 dicembre 1990. Era giunto a Mogadiscio col suo furgone
portando la salma di un italiano morto qualche giorno prima. Lo aveva portato
per seppellirlo nel cimitero degli italiani. Un piccolo cimitero con poche croci,
dove riposano i missionari francescani e le Suore della Consolata. Gli era
morto fra le braccia abbandonato da tutti. Padre Pietro non se la sentiva di
metterlo sotto terra in una buca qualsiasi. Doveva seppellirlo da cristiano,
con una croce sopra. Ma dove si trovava, l’unica cassa da morto era la sua,
quella che come tutti i missionari in Somalia, si era tenuta in serbo per il
proprio funerale. Di fronte all’opera di misericordia del seppellire i morti,
Padre Turati non riteneva più sua quella cassa. Doveva realizzare, forse senza
rendersene conto, l’ultima esigenza del voto di povertà francescana: quella di
non aver più nulla su questa terra.
L’8
febbraio 1991 padre Pietro veniva assassinato da ignoti davanti alla chiesetta
della ex Missione di Gelib. In quei giorni erano in corso violenti scontri fra
i soldati governativi e gruppi di ribelli.
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