BEATO NUNZIO SULPRIZIO
A 540 metri sul livello
del mare, sulle pendici del monte Picca, si distende a diversi livelli per lo
sperone roccioso, il borgo di Pescosansonesco, in provincia di Pescara. Lì, dai
giovani sposi Domenico Sulprizio, calzolaio, e Rosa Luciani, filatrice, il 13
aprile 1817, domenica “in albis”, nacque un bambino, che, battezzato, prima del
tramonto del medesimo giorno, fu chiamato Nunzio.
Solo il registro dei
battesimi – il libro dei figli di Dio – della sua parrocchia, per lunghi anni
riporterà il suo nome: ignoto ai potenti, ma notissimo e bene-amato da Dio. A
tre anni, i suoi genitori lo portarono al Vescovo di Sulmona, Mons. Francesco
Tiberi, in visita pastorale nel vicino paese di Popoli, perché fosse cresimato:
era il 16 maggio 1820, l’unica data lieta della sua fanciullezza, perché in
seguito non avrà che da soffrire.
Orfano e sfruttato
Nell’agosto dello stesso
anno, muore papà Domenico a soli 26 anni. Circa due anni dopo, mamma Rosa si
risposa, anche per trovare un sostegno economico, ma il patrigno tratta il
piccolo Nunzio con asprezza e grossolanità. Lui si lega molto alla mamma e alla
nonna materna. Comincia a frequentare la scuola, una specie di “giardino
d’infanzia”, aperto dal sacerdote don De Fabiis, nel paese della nuova residenza,
Corvara.
Sono, per Nunzio, le ore
più serene della sua vita: impara a conoscere Gesù, il Figlio di Dio fatto uomo
e morto in croce in espiazione del peccato del mondo, intraprende a pregare, a
seguire gli esempi di Gesù e dei santi, che il buon prete e maestro gli
insegna. Gioca, socievole e aperto, con i piccoli amici. Comincia a imparare a
leggere e a scrivere.
Ma il 5 marzo 1823,
muore la mamma: Nunzio ha solo sei anni e la nonna materna Rosaria Luciani lo
ospita in casa, prendendosi cura di lui. È analfabeta, ma ha una fede e una
bontà grandissime: nonna e nipotino camminano sempre insieme: insieme alla
preghiera, alla Messa, nei piccoli lavori di casa. Il bambino frequenta la
scuola istituita da don Fantacci, per i fanciulli più poveri e lì cresce, in
sapienza e virtù: è un puro di cuore che si delizia a servire la Messa, a far
visita a Gesù Eucaristico nel Tabernacolo, molto spesso. Ha dentro un orrore
sempre più grande al peccato e un desiderio sempre più intenso di rassomigliare
al Signore Gesù.
Quando ha appena nove
anni, il 4 aprile 1826, gli muore la nonna. Nunzio ormai è solo al mondo ed è
per lui l’inizio di una lunga “via dolorosa” che lo configurerà sempre più a
Gesù Crocifisso.
Solo al mondo, è accolto
in casa – come garzone – dallo zio Domenico Luciani – detto “Mingo” – il quale
subito lo toglie dalla scuola e lo “chiude” nella sua bottega di
fabbro-ferraio, impegnandolo nei lavori più duri, senza alcun riguardo all’età
e alle più elementari necessità di vita. Spesso lo tratta male, lasciandolo
anche senza cibo, quando a lui sembra che non faccia ciò che gli è richiesto.
Lo manda a far commissioni, senza curarsi né delle distanze, né dei materiali
da trasportare, né degli incontri buoni o cattivi che può fare. Allo
“sbaraglio”, sotto sole, neve, pioggia, vestito sempre allo stesso modo. Non
gli sono risparmiate neppure le percosse, “condite” da parolacce e bestemmie.
Ci sarebbe da soccombere
in breve, ma Nunzio ha già una fede grande. Nel chiuso dell’officina, battendo
sull’incudine, occupato sotto la “sferza” di un lavoro disumano, pensa al suo
grandissimo Amico, Gesù Crocifisso, e prega e offre, in unione con Lui, “in
riparazione dei peccati del mondo, per fare la volontà di Dio”, “per
guadagnarsi il Paradiso”. Alla domenica, anche se nessuno lo manda, va alla
Messa, il suo unico sollievo nella settimana.
Presto si ammala. Un
rigido mattino d’inverno, lo zio Mingo lo manda, con un carico di ferramenta
sulle spalle, su per le pendici di Rocca Tagliata, in uno sperduto casolare.
Vento, freddo e ghiaccio lo stremano. Lungo il cammino mette i piedi accaldati
in un laghetto gelido. A sera rientra spossato, con una gamba gonfia, la febbre
che lo brucia, la testa che scoppia. Va a letto, senza dir nulla, ma l’indomani
non regge più.
Lo zio gli dà come
“medicina”, quella di riprendere il lavoro, perché “se non lavori, non mangi”.
Nunzio in certi giorni si trova costretto a chiedere un pezzo di pane ai vicini
di casa. Risponde con il sorriso, la preghiera, il perdono: “Sia come Dio
vuole. Sia fatta la volontà di Dio”. Appena può, si rifugia a pregare in
chiesa, davanti al Tabernacolo: gioia, energia e luce gli vengono da
Gesù-Ostia, così che, appena adolescente, è in grado di dar consigli
sapientissimi al contadini che lo interpellano.
Si trova con una
terribile piaga a un piede, che presto andrà in cancrena. Lo zio gli dice: “Se
non puoi più alzare il maglio, starai fermo a tirare il mantice!”. È una
tortura indicibile. La piaga ha bisogno di continua pulizia e Nunzio si
trascina fino alla grande fontana del paese per pulirsi ma di lì viene presto
cacciato come un cane rognoso, dalle donne che, venendo lì a lavare i panni,
temono che inquini l’acqua. Trova allora una vena d’acqua a Riparossa, dove può
provvedere a se stesso, impreziosendo il tempo lì trascorso con molti Rosari
alla Madonna.
Wochinger, un secondo
padre
Tra l’aprile e il giugno
1831, è ricoverato all’ospedale dell’Aquila, ma le cure sono impotenti. Per
Nunzio sono settimane però di riposo per sé e di carità per gli altri
ricoverati, di preghiera intensa. Rientrato in casa, è costretto dallo zio a
chiedere l’elemosina per sopravvivere. Commenta: “È molto poco che io soffra,
purché riesca a salvare la mia anima, amando Dio”. In tanto buio, solo il
Crocifisso è la sua luce.
Finalmente, lo zio
paterno, Francesco Sulprizio, militare a Napoli, informato da un uomo di
Pescosansonesco, fa venire Nunzio a casa sua e lo presenta al Colonnello Felice
Wochinger, conosciuto come “il padre dei poveri”, per la sua intensa vita di
fede e per la inesauribile carità. È l’estate 1832 e Nunzio ha 15 anni:
Wochinger scopre di aver davanti un vero “angelo” del dolore e dell’amore a
Cristo, un piccolo martire. Si stabilisce tra i due un rapporto di padre a
figlio.
Il 20 giugno 1832,
Nunzio entra all’Ospedale degli Incurabili, in cerca di cure e di salute.
Provvede il Colonnello a tutte le sue necessità. Medici e malati si accorgono
di aver davanti un altro “S. Luigi”. Un buon prete gli domanda: “Soffri
molto?”. Risponde: “Sì, faccio la volontà di Dio”. “Che cosa desideri?”.
“Desidero confessarmi e ricevere Gesù Eucaristico per la prima volta!”. “Non
hai ancora fatto la prima Comunione?”. “No, dalle nostre parti, bisogna
attendere i 15 anni”. “E i tuoi genitori?”. “Sono morti”. “E chi pensa a te?”.
“La Provvidenza di Dio”.
Viene subito preparato
alla prima Comunione: per Nunzio è davvero il giorno più bello della sua vita.
Il suo confessore dirà che “da quel giorno la Grazia di Dio incominciò a
operare in lui fuori dell’ordinario, da vederlo correre di virtù in virtù.
Tutta la sua persona spirava amore di Dio e di Gesù Cristo”.
Per circa due anni,
soggiorna tra l’ospedale di Napoli e le cure termali a Ischia, ottenendo
qualche passeggero miglioramento. Lascia le stampelle e cammina solo con il
bastone. Finalmente è più sereno: prega molto, stando a letto, o andando in
cappella davanti al Tabernacolo e al Crocifisso, e all’Addolorata. Si fa
l’angelo e l’apostolo degli altri ammalati, insegna il catechismo ai bambini
ricoverati, preparandoli alla prima Confessione-Comunione e a vivere più
intensamente da cristiani, a valorizzare il dolore. Quelli che lo avvicinano
sentono in lui il fascino della santità. Suole raccomandare ai malati: “Siate
sempre con il Signore, perché da Lui viene ogni bene. Soffrite per amore di Dio
e con allegrezza”. Per sé, ama molto un’invocazione alla Madonna: “Mamma Maria,
fammi fare la volontà di Dio”.
Fatto il possibile per
la sua salute, dall’11 aprile 1834, Nunzio vive nell’appartamento del col.
Wochinger, al Maschio Angioino. Il suo secondo “padre” si specchia nelle sue
virtù e ha una grandissima cura di lui, contraccambiato da profonda
riconoscenza. Pensa a consacrarsi a Dio, e in attesa, si fa approvare dal
confessore una regola di vita per le sue giornate, regola simile a quella di un
consacrato, che osserva con scrupolo: la preghiera, la meditazione e la Messa
al mattino, ore di studio durante il giorno, seguito da buoni maestri, il
Rosario alla Madonna verso sera. Diffonde pace e gioia attorno a sé, e profumo
fragrante di santità.
Il venerabile Gaetano
Errico, fondatore della Congregazione dei Sacri Cuori gli promette che lo
accoglierà nella sua Famiglia religiosa appena fosse avviata: “Questo è un
giovane santo e a me interessa che il primo a entrare nella mia Congregazione
sia un santo, non importa se infermo”. Molto spesso, un certo fra Filippo,
dell’Ordine degli “Alcantarini”, viene a tenergli compagnia e lo accompagna,
finché riesce a reggersi, nella chiesa di S. Barbara, interna al castello.
Presto però, all’iniziale miglioramento, segue l’aggravarsi delle sue
condizioni fisiche: in fondo si tratta di cancro alle ossa e non c’è cura che
serva. Nunzio, diventa un’offerta viva con il Crocifisso, a Dio gradita.
La gioia: dal Crocifisso
Il colonnello gli sta
molto vicino: dal primo giorno, lo ha chiamato “Figlio mio” o “bambino mio”,
ricambiato sempre da lui, con il nome di “papà mio”. Ora comprende che
purtroppo si avvicina l’ora della separazione che solo la fede consola nella
certezza dell’“arrivederci in Paradiso”.
Nel marzo 1836, la
situazione di Nunzio precipita. La febbre è altissima, il cuore non regge più.
Le sofferenze sono acutissime. Prega e offre, per la Chiesa, per i sacerdoti,
per la conversione dei peccatori. Quelli che passano a trovarlo, raccolgono le
sue parole: “Gesù ha patito tanto per noi e per i suoi meriti ci aspetta la
vita eterna. Se soffriamo per poco, godremo in Paradiso”. “Gesù ha sofferto
molto per me. Perché io non posso soffrire per Lui?”. “Vorrei morire per
convertire anche un solo peccatore”.
Il 5 maggio 1836, Nunzio
si fa portare il Crocifisso e chiama il confessore. Riceve i Sacramenti, come
un santo. Consola il suo benefattore: “State allegro, dal Cielo vi assisterò
sempre”. Verso sera, dice, tutto contento: “La Madonna, la Madonna, vedete
quanto è bella!”. A 19 anni appena, va a vedere Dio per sempre. Attorno si
spande un profumo di rose. Il suo corpo, disfatto dalla malattia, diventa
singolarmente bello e fresco e rimane esposto per cinque giorni. Il suo
sepolcro è subito meta di pellegrinaggio.
Già Papa Pio IX, il 9
luglio 1859, lo dichiara “eroico nelle sue virtù” quindi “venerabile”. Il 1°
dicembre 1963, davanti a tutti i Vescovi del mondo riuniti nel Concilio
Vaticano II, Papa Paolo VI iscrive Nunzio Sulprizio tra i “beati”, modello per
i giovani operai, per tutti i giovani, anche quelli di oggi.
Se Nunzio, vissuto solo
nel dolore, ha saputo dare senso e bellezza alla sua giovinezza grazie a Gesù
amato e vissuto, perché, con la sua Grazia, la Grazia del divin Redentore, del
più grande Amico dell’uomo, i giovani d’oggi, pure insidiati dallo sregolamento
di tutti i sensi, dalla droga, dalla disperazione, non potranno fare della loro
vita un capolavoro di amore e di santità? Occorre credere e obbedire al Cristo
Crocifisso e Risorto che fa nuove tutte le cose.
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