SAN CARLO BORROMEO
Nella
storia civile e anche in quella della Chiesa troviamo vari personaggi cui i
posteri hanno decretato il titolo di Magno. Non li enumero qui perché sono
facili da ricordare e poi non sono moltissimi. Al santo che vi presento, San
Carlo Borromeo, non è stato dato il titolo di Grande, ma secondo me lo
meriterebbe, almeno nell’ambito della storia ecclesiastica. È un personaggio
centrale del 1500, una delle figure più eminenti, la cui opera, specialmente
per Milano, ha superato la forza dell’oblio.
Carlo
nacque ad Arona, sul Lago Maggiore, nel 1538, in una nobile e ricca famiglia.
Il padre, Gilberto, era noto per la profonda religiosità e per la sua
generosità verso i poveri. Anche la madre, Margherita, era piissima: purtroppo
morì quando Carlo aveva solo nove anni. Questo influsso dei genitori rimarrà
fondamentale nella sua educazione.
A 12
anni, Carlo fu nominato commendatario di un’abbazia benedettina di Arona, che
fruttava una rendita di 2000 scudi.
Una
cifra considerevole. Nonostante l’età, però, il ragazzo aveva già le idee
chiare.
Infatti,
appena ricevuta l’investitura, corse dal padre per dirgli che aveva deciso di
spendere quei soldi in aiuto dei poveri. Non c’è male per un dodicenne. I suoi
pari di oggi sono anni luce lontano da lui.
Arrivati
i 14 anni si recò a studiare prima a Milano poi a Pavia, portando con sé solo
un piccola somma di denaro. Ma a lui questa condizione di strettezza economica
(relativamente al suo rango) non pesava più di tanto. Nella condizione di
studente rivelò ben presto i suoi numerosi talenti: grande intelligenza,
carattere tenace e riflessivo, era portato all’essenziale, a non perdersi cioè
in tante banalità ed esperienze superficiali, non infrequenti a quell’età. Nel
1559, diventò dottore “in utroque jure” ed aveva solo 21 anni.
A
Roma, intanto, alla fine dello stesso anno ci fu il cambio di guardia in
Vaticano. Era stato eletto un nuovo Papa, Pio IV, nella persona di Gianangelo
de’ Medici, suo zio materno. Questo fatto impresse una svolta alla sua vita. Fu
infatti chiamato dallo stesso Papa nella Città Eterna insieme al fratello
Federico.
Carriera
ecclesiastica a Roma
Nel
caso di Pio IV ci troviamo davanti ad un raro caso di nepotismo positivo per la
Chiesa. Il Papa promosse immediatamente i due nipoti: Federico (1561) ebbe la
carica di capitano generale della Chiesa, Carlo non ancora ventiduenne, fu
nominato cardinale con un incarico che oggi potremmo chiamare di Segretario di
Stato. Poco dopo gli affidò anche l’amministrazione della diocesi di Milano con
l’obbligo di restare però... a Roma. E questa non era l’unica carica. Ne ebbe
parecchie altre con l’inevitabile cumulo anche dei rispettivi benefici
economici. Gli storici dicono che l’accordo tra Papa e nipote fu sempre
perfetto. Carlo nonostante le cariche rimaneva sempre un uomo di cultura.
Al
tal fine fondò un’accademia a carattere umanistico-letterario, composta da
amici, chiamata Notti Vaticane. Si era anche comprato un fastoso palazzo con
servitù a seguito, in cui organizzava fastosi e festosi ricevimenti. Erano i
tempi: il tutto non per vanità ma perché lo riteneva opportuno per la carica
che ricopriva e per la fama e decoro della famiglia da cui proveniva.
L’evento
decisivo
L’improvvisa
morte del fratello Federico (1562) gli fece cambiare radicalmente vita. La
interpretò come un segno da parte di Dio per riformare la propria vita ancor
più in senso evangelico. Così cambiò radicalmente: addio ai festosi
ricevimenti, addio ai divertimenti anche moralmente leciti, addio alle Notti
Vaticane che divennero un cenacolo di cultura religiosa. Ridusse il proprio
tenore di vita, intensificando la penitenza, i digiuni e le rinunce. Riprese
inoltre, con più impegno, la propria formazione teologica e pastorale. Era pur
sempre vescovo di una diocesi anche se non esercitava direttamente.
Il
Papa vide perplesso la trasformazione in senso ascetico del prezioso nipote
(che qualche volta chiamava “il mio occhio destro”). Scosse la testa: il tutto
gli sembrava esagerato. Giunse persino a sgridarlo (addebitando l’eccessivo
zelo ascetico ai consigli dei suoi direttori spirituali e all’influsso di
personaggi contemporanei del calibro di Ignazio di Loyola, Gaetano da Thiene,
Filippo Neri: guarda caso tutti Santi dichiarati tali dalla Chiesa). Il Papa lo
scoraggiò, lo rimproverò, ma lo lasciò fare, e alla fine lo... imitò.
Ma
il più grande merito di Carlo Borromeo fu che convinse il Papa a riconvocare il
Concilio di Trento sospeso nel 1555. Se questo lavorò tanto e bene e se finì
gloriosamente e proficuamente per la Chiesa (1563) il grande merito fu di
Carlo. Egli ne fu la mente organizzatrice e l’ispiratore.
Nel
luglio 1563, fu ordinato sacerdote e poco tempo dopo vescovo. Voleva fare il
pastore di anime nella sua diocesi di Milano e ne aspettava l’occasione.
Il
Concilio era finito ma bisognava assicurarsi che anche il successore di Pio IV
avesse l’intenzione di continuare la riforma che ne era scaturita. Carlo
credeva nell’azione dello Spirito Santo nella direzione della Chiesa, ma, nello
stesso tempo, faceva umanamente quello che lui stesso pensava utile. Al vecchio
e ammalato zio infatti suggerì i nomi dei nuovi cardinali del futuro conclave:
doveva promuovere solo quelli favorevoli alla riforma della Chiesa voluta dal
Concilio di Trento. Fatto questo gli chiese di poter presiedere, come legato
papale, il consiglio provinciale che si teneva a Milano (la sua diocesi) per
attuare le disposizioni conciliari. Lo zio Papa acconsentì. E Carlo partì. Ma
poco tempo dopo dovette in tutta fretta fare ritorno a Roma (in compagnia di
Filippo Neri) perché il Papa era ormai alla fine. Pio IV infatti morì tra le
sue braccia il 9 dicembre 1565.
Morto
un Papa, se ne fa un altro, così dice il proverbio. E così fu. Il 7 gennaio
1566, il Nostro avrebbe potuto farsi eleggere Papa con facilità, la sua “lobby”
infatti era fortissima. Ed inoltre, era degnissimo. Ma lo Spirito Santo e lui
non vollero. Fu eletto il Card. Michele Ghislieri, domenicano, favorevole
all’attuazione del Concilio di Trento. E Carlo fu uno dei suoi “sponsor”.
Un
pastore “di ferro” che dà la sua vita
Nell’aprile
del 1566, raggiunse Milano, dove iniziò subito la grande opera di riforma
secondo il Concilio di Trento. Fu un organizzatore geniale e un lavoratore
instancabile tanto che Filippo Neri esclamò: “Ma quest’uomo è di ferro”.
Organizzò
la sua diocesi in 12 circoscrizioni, curò la revisione della vita della
parrocchia obbligando i parroci a tenere i registri di archivio, con le varie
attività e associazioni parrocchiali. Si impegnò molto nella formazione del
clero creando il seminario maggiore e minore. Fu soprattutto instancabile nel
visitare le popolazioni affidate alla sua cura pastorale e spirituale,
iniziando la sua prima visita nel 1566 subito dopo l’arrivo a Milano.
La
sua visita in una parrocchia era preparata spiritualmente con la preghiera e
con la predicazione che doveva portare ai sacramenti. Il vescovo all’inizio
faceva una riunione con i notabili del paese ai quali chiedeva tra l’altro:
“Come si comportano in chiesa i parrocchiani? Ci sono eretici, usurai,
concubini, banditi o criminali? Ci sono seminatori di discordia, parrocchiani
che non osservano la Quaresima?... I padri di famiglia educano bene i propri
figli? Non c’è lusso esagerato nel vestire da parte degli uomini e delle donne?
Se ci sono delle istituzioni di beneficenza e di aiuto sociale, sono ben
amministrate?”. E altre domande simili. Come si vede concrete.
Tutto
bene quindi nella sua opera di riforma? Non proprio. Incontrò difficoltà e
talvolta anche ostilità. Come nel caso dell’attentato che subì il 26 ottobre 1569
ad opera di quattro frati dell’Ordine degli Umiliati. Uno di questi gli sparò
mentre era in preghiera nella sua cappella privata. Motivo? Il Borromeo voleva
riformare quell’ordine religioso ormai decaduto. Ma le riforme proposte furono
viste dagli Umiliati come umiliazioni. La pallottola gli forò il rocchetto, ma
lui rimase illeso miracolosamente ed il popolo lo interpretò come un segno
dall’alto della bontà delle sue riforme. E gli Umiliati, di nome, furono
umiliati anche di fatto e per sempre con la loro cancellazione definitiva.
Ma
lo spessore della sua personalità di pastore e del suo amore più grande che
“dona la vita per i suoi amici”, la mostrò in occasione della peste del 1576.
Assente dalla città perché in visita pastorale, rientrò subito, mentre il
governatore spagnolo e il gran cancelliere fuggivano via.
Fece
subito testamento sapendo che la peste non aveva riguardo per nessuno, nemmeno
per l’alto clero: organizzò l’opera di assistenza, visitò personalmente e
coraggiosamente i colpiti dal terribile morbo, aiutò tutti instancabilmente
fino al punto da meritarsi un rimprovero dal Papa di Roma.
Nonostante
tutta l’attività pastorale, il Borromeo fece quattro viaggi a Roma e quattro a
Torino. Era molto devoto della sacra Sindone. Fu proprio nel 1578 che i duchi
di Savoia la portarono a Torino perché al vescovo di Milano, che aveva chiesto
di venerarla personalmente, fosse risparmiato il difficile e pericoloso
attraversamento delle Alpi (motivo ufficiale), ma anche per difenderla dalle
brame dei Francesi (motivo politico). L’esposizione della reliquia fatta a
Torino nel 1978 fu per ricordare questo suo arrivo nella città.
A
causa della sua attività pastorale senza sosta, dei frequenti viaggi, delle
continue penitenze, la sua salute peggiorò rapidamente. La morte lo colse
preparatissimo il 3 novembre del 1584, ed il suo culto si diffuse rapidamente
fino alla canonizzazione fatta nel 1610 da Paolo V.
Carlo
Borromeo moriva fisicamente ma la sua eredità, fatta di santità personale e di
azione instancabile per la Chiesa era più viva che mai, e sarebbe continuata
nei secoli. Fino ad oggi.
Commenti
Posta un commento