VENERABILE GIUSEPPE AMBROSINI
Il 4 febbraio 1889, alle
19, venne alla luce l’ultimogenito di Paolo Luigi Ambrosini, falegname
agricolo, e di Maria Anna Verzini, casalinga. Gli altri dodici figli erano
morti in tenera età e nemmeno il neonato sembrava fare eccezione: perciò venne
immediatamente battezzato dalla levatrice, Luigia Brusco. Il rito venne
completato nella parrocchiale di Soave il 12 febbraio, da parte del vicario
cooperatore don Anacleto Provoli: il piccolo ricevette i nomi di Giuseppe
Angelo. Cresciuto secondo i semplici valori trasmessi dalla fede contadina dei
suoi, a poco meno di sei anni Giuseppe venne ammesso alla Cresima, ricevuta
nella sua parrocchia il 13 dicembre 1894 dalle mani di monsignor Giuseppe
Bacilieri, all’epoca vicario del vescovo di Verona. Cominciata la frequenza
alle scuole elementari, prima di entrare in classe compiva una piccola visita
in chiesa. Questo suo amore per l’Eucaristia, manifestato anche nella sua
presenza tra i chierichetti parrocchiali, gli valse l’ammissione alla Prima
Comunione a nove anni, in anticipo rispetto agli usi dell’epoca.
Da Soave a Villanova
L’anno successivo, gli
Ambrosini si trasferirono da Soave a Villanova, frazione del comune di San
Bonifacio, per coltivare come fittavoli i vasti campi adiacenti all’ex
monastero benedettino adiacente alla chiesa parrocchiale, un tempo abbazia.
Nonostante la
lontananza, Giuseppe compiva ogni giorno a piedi il tragitto per andare a
scuola, in modo da completare il corso delle elementari. Una volta concluso, prese
a frequentare la scuola parrocchiale istituita dal parroco, don Gaetano
Martinelli, per i ragazzi che avvertivano i primi segnali di una vocazione al
sacerdozio.
Un cammino interrotto
Dopo tre anni, il
ragazzo sostenne e superò gli esami per essere ammesso alla quinta ginnasio
presso il Seminario vescovile di Vicenza. Entrato nel novembre 1903, prese
subito sul serio la vita comune, lo studio, la preghiera, certo che il Signore
lo voleva sacerdote. Non dello stesso parere era suo padre: non voleva essere
privato dell’unico figlio che gli rimaneva.
Così Giuseppe, per
obbedirgli, lasciò il Seminario e superò gli esami di licenza ginnasiale presso
il liceo Scipione Maffei, a Verona. Ogni giorno compiva un tragitto di oltre
quaranta chilometri in treno, tra andata e ritorno, e si svegliava presto per
non rimanere senza la Comunione. Anche durante il liceo, a detta di chi lo
conobbe, si comportava “da seminarista”, in maniera educata e dignitosa ma non
rigida, con un pizzico di umorismo, che gli meritò la stima dei compagni.
Nonostante a scuola l’insegnamento della filosofia avesse una netta impronta
materialistica, rimase fermo nelle sue posizioni. Non era tra gli studenti
migliori, ma riuscì sempre a passare alle classi successive senza dover
riparare.
Di nuovo in Seminario
per “miracolo”
Nel luglio 1907, ormai
diciottenne, il giovane concluse il liceo, determinato a tornare in Seminario
per gli studi teologici. In famiglia era sostenuto dalla mamma, dal nonno e
dagli altri familiari, eccetto il padre, che avrebbe preferito che s’iscrivesse
a Ingegneria. Il 4 novembre, giorno fissato per il ritorno, irruppe nello
studio del vicerettore, don Ettore Zanuso, che ormai era certo di non rivederlo
più, gridando: «Miracolo, miracolo della Madonna!». A lei, infatti, aveva
attribuito il repentino cambiamento di parere da parte del suo genitore, che si
era offerto perfino di accompagnarlo personalmente.
Negli anni della
Teologia Giuseppe affinò il suo carattere, che da tenace ed irrequieto divenne
calmo e cordiale, pur senza smarrire il suo senso dell’umorismo; in
particolare, diede battaglia al suo amor proprio. Nel periodo in cui san Pio X,
con l’enciclica Pascendi, condannava gli errori del modernismo, lui rispettò
quelle consegne, a differenza di altri chierici che si erano lasciati
influenzare dalle dottrine avverse a quella ufficiale.
Il 26 luglio 1908
ricevette la tonsura, mentre il 29 giugno 1909 fu il turno degli Ordini minori.
Alla fine della II Teologia, inoltre, conseguì l’abilitazione magistrale,
seguendo così le direttive del Vescovo, che voleva che i suoi sacerdoti fossero
anche maestri di scuola. Durante le vacanze, s’impegnava a insegnare la
dottrina cristiana e il canto, ma anche a visitare gli ammalati, ai quali
lasciava, a volte di nascosto, del denaro o qualche altro oggetto utile.
Trascorreva, poi, il tempo libero a leggere e meditare, specialmente nella
chiesa dell’abbazia di Villanova.
L’amicizia con san
Giovanni Calabria
Nell’autunno 1910
dovette nuovamente interrompere gli studi, per assolvere agli obblighi del
servizio militare, prestato nel III reggimento di fanteria alla caserma di
Castel San Pietro a Verona.
Fu in quel periodo che,
per non venir meno alla Comunione quotidiana, prese a frequentare la Casa Buoni
Fanciulli di don Giovanni Calabria, che all’epoca aveva sede in via San Zeno al
Monte. Il futuro santo riconobbe presto il valore di quel giovane chierico
soldato: fu l’inizio di un lungo rapporto di amicizia. Tuttavia, le fatiche a
cui il giovane si sottoponeva peggiorarono il suo stato di salute: si ammalò di
pleurite e, dopo tre mesi d’ospedale, venne rimandato a casa.
Verso il sacerdozio
Il 7 marzo 1911, ormai
ristabilito, tornò in Seminario per prepararsi al suddiaconato, che gli venne
conferito il 1° aprile dal Vescovo di Padova Luigi Pellizzo (la diocesi di
Vicenza era vacante). Nonostante fosse preoccupato per le proprie condizioni,
cercava di consolarsi pensando al diaconato ormai prossimo.
Il 29 aprile 1911,
vigilia di quel giorno solenne, confidò in una lettera a don Calabria i suoi
propositi, tra i quali spicca il primo. «Voglio farmi santo», scrisse, con
termini tanto simili a quelli di molti altri futuri sacerdoti e non solo, ma da
lui integrati così: «e tanto santo da santificare anche gli altri».
«Con la vita comoda non
si va in paradiso»
Il 30, quindi, divenne
diacono per l’imposizione delle mani del vescovo di Treviso, Andrea Giacinto
Longhin (Beato dal 2002). Infine, con dispensa di diciotto mesi sull’età
canonica, fu consacrato sacerdote dal nuovo Vescovo vicentino, Ferdinando
Rodolfi, il 30 luglio 1911. Celebrò per la prima volta nel Santuario della
Madonna di Monte Berico il 5 agosto, mentre l’indomani, circondato dai suoi
compaesani, cantò Messa nella sua parrocchia.
Alla proposta, da parte
del padre, di trasferirsi accanto alla sua nuova tenuta (anche per esercitare
il ministero senza strapazzi di salute), oppose il suo diniego: «No, papà, devo
andare dove il vescovo mi manda, per obbedienza e per salvare le anime». E
aggiunse: «Con la vita comoda non si va in paradiso».
Cappellano ad Arzignano,
con un desiderio nel cuore
La sua prima nomina fu
come cappellano (ossia vicario parrocchiale) ad Arzignano. L’11 settembre,
prima di andarvi ad abitare, fece visita a don Calabria. Da quell’incontro con
lui gli sorse in cuore un nuovo desiderio: associarsi a lui e vivere alla Casa
Buoni Fanciulli. Per il momento, tuttavia, decise di non farne parola con
nessuno.
Nella nuova destinazione
diede immediatamente un’ottima impressione agli altri sacerdoti. Cercava
davvero di esserci per tutti i parrocchiani, ma era particolarmente vicino ai
ragazzi, che raccoglieva in un centro giovanile, per i malati, che assisteva
come quando era chierico, e per i più abbandonati della società rurale.
I primi sintomi della
tubercolosi
Nel pieno della sua
attività, purtroppo, la salute volse al peggio. Nella notte tra il Venerdì e il
Sabato Santo 1912, don Giuseppe ebbe uno sbocco di sangue. L’indomani, ossia il
6 aprile, ne parlò con don Luigi Peloso, suo amico e confratello, che gl’impose
di tornare a casa: era rimasto ad Arzignano solo sette mesi.
La malattia fu per lui
l’occasione per cercare di concretizzare la sua adesione all’apostolato di don
Calabria. Appena si riprese, ottenne da monsignor Rodolfi di poter trascorrere
due mesi di convalescenza proprio a San Zeno al Monte, dove fu d’esempio sia
nella preghiera sia nell’assistenza ai ragazzi.
Buio, luce, speranza in
Dio
Dal 19 al 26 settembre
1912 fu pellegrino a Lourdes, ma non domandò di poter guarire: «Ho chiesto la
grazia di andare in paradiso!» rispose al padre che l’interrogò sul motivo per
cui avesse pregato la Madonna.
Nel mese di ottobre,
dopo un malore durante la Messa, venne rimandato a Villanova e da lì destinato
al sanatorio di Sondalo, in provincia di Sondrio. Le cure non sembravano
giovargli, tanto che le sue lettere alternano espressioni ironiche a momenti in
cui gli sembrava di vedere solo buio attorno a sé. La vicinanza epistolare
degli amici e dei parenti l’invitava però a rivolgere lo sguardo verso il
cielo: «Unica mia speranza è Dio, nel quale sempre confidai e confido
fortemente», scrisse al cugino Ettore.
«L’ho offerta a Dio la
mia vita...»
Dato che non progrediva
affatto, fu ricondotto a casa. Assistito dai familiari e da due religiosi
Camilliani, che si diedero il cambio al suo capezzale, si raccomandava alle
preghiere di quanti venivano a trovarlo, per poter acquistare meriti per il
Paradiso.
Il 29 marzo ricevette la
visita dell’amico don Serafino Pavan, che l’esortò a offrire la sua vita.
Interrompendolo, dichiarò: «L’ho offerta, l’ho offerta a Dio la mia vita...» e
si raccomandò al suo ricordo in particolare nella Messa. L’indomani arrivò don
Giovanni Calabria, a cui il giovane confratello chiese “l’obbedienza di
morire”: gliela concesse, a patto che non si dimenticasse di lui. La sua
risposta fu che dal Cielo gli avrebbe mandato qualcuno che lo avrebbe
sostituito.
La morte e la fama di
santità
La mattina del 31 marzo,
prima che si potesse celebrare la Messa nella stanza vicino alla sua, don
Giuseppe morì. Aveva ventiquattro anni ed era sacerdote da due. Il 1° aprile
vennero celebrati i funerali, al termine dei quali venne sepolto nel cimitero
di Villanova di San Bonifacio, nella tomba di famiglia.
La sua fama di santità
venne tenuta in vita da don Calabria, che fece stampare delle immagini con i
propositi da lui scritti nella lettera alla vigilia del diaconato e ordinò a
don Luigi Peloso di scriverne la biografia.
Il processo di
beatificazione
Per indagare l’effettiva
pratica delle virtù cristiane in grado eroico da parte sua, la diocesi di
Vicenza istituì il Processo informativo, dal 31 marzo 1958 (a quarantacinque
anni esatti dalla sua morte) al 16 marzo 1960. Ottenuta l’approvazione degli
scritti nel 1965, tre anni dopo fu pronta la “Positio super virtutibus”. Dall’11
giugno 1963 i suoi resti mortali riposano in un sepolcro nella cripta della
chiesa abbaziale di Villanova.
Il 15 dicembre 1977
venne introdotta la Causa e venne richiesto il Processo apostolico, durato dal
17 giugno 1979 al 26 febbraio 1980, integrato dal processo suppletivo diocesano
svolto dal 28 ottobre al 5 novembre 1981.
Ottenuto parere
favorevole da parte dei membri della Congregazione vaticana per le Cause dei
Santi, il 10 luglio 1990 è stato reso pubblico il decreto con cui san Giovanni
Paolo II dichiarava Venerabile don Giuseppe Ambrosini.
I suoi devoti, che da
sempre lo chiamano “il Santo dell’Abbazia”, attendono solo un miracolo che
confermi la sua effettiva intercessione presso Dio.
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